Le isole di Norman

di Giovanna Daddi

Le isole di Norman, Veronica Galletta, Italo Svevo, 2020

Elena vive sull’Isola di Ortigia, angolo epico di Siracusa, la Città, insieme al padre Michele e alla madre Clara.
Il padre è un professore di matematica, ex militante del PCI. La madre è bella, ha occhi profondi e una passione per le piante. E da alcuni anni vive chiusa nella sua camera-cabina in mezzo a pile di libri che sposta e rimescola secondo un ordine apparentemente casuale e certamente incomprensibile agli altri.
Un giorno come gli altri, con lo stesso molo davanti alla casa, il carcere e le sue inferriate, lo stesso profumo di basilico, lo stesso vento che entra e esce dalla casa, la madre di Elena svanisce.
Questa scomparsa dà inizio alla ricerca di Elena e al flusso di un dolore familiare che ha radici lontane.

Elena inizia a cercare la madre e, al tempo stesso, a indagare i suoi ricordi: indagine del presente e indagine del passato, di un incidente che ha lasciato cicatrici profonde, indelebili e brucianti sulla pelle della giovane donna.

Procede così la narrazione della Galletta, con una scrittura piana e semplice, lontana per fortuna da lambiccati virtuosismi, evocativa, elegante; la struttura per flashback è altrettanto chiara e semplice, non ci sono strade tortuose nel racconto. Questa naturalezza stilistica, che si snoda spontanea tra presente e passato, fa da controcanto alla complessità psicologica dei personaggi, esaltandola, e alla griglia di coordinate con cui Elena tenta di dare un senso alla realtà degli eventi: rette, rettangoli, triangoli, battaglie navali, punti di intersezione, mappe di un tesoro immaginario, come quello di R.L. Stevenson, che dovrebbero portare alla verità o, semplicemente, a un avvicinamento, a una versione di sé che non riesce ad agganciarsi al mondo.

Le mappe di Elena, i libri che dissemina nei luoghi che forse la madre ha percorso nella sua sparizione, disegnano un itinerario nell’isola di Santa Lucia, la Santa che ad Ortigia “è più importante del Natale”: la Santa della Luce, per illuminare i ricordi, portare il sole dentro un buio fatto di pentole rosse e acqua bollente, di salotti in penombra, di pesci rossi, di vasche da bagno catartiche, di parole non dette; la Santa degli occhi, quelli dove sta dentro un mondo, quelli che servono per vedere con chiarezza senza l’inganno delle percezioni e il fardello del corpo.

E così Elena cammina avanti e poi a ritroso, armata della matematica del padre e del bisogno di incasellare, finendo per perdersi tra odori forti e nauseanti, colori e immagini pittoriche in cui il rosso e il nero profondo prevalgono, dipinti sull’asfalto nel giorno dei morti; odori e colori condensati e ormai incancellabili nella terra e nel mare, in ogni vicolo, in ogni banco di mercato; perfino nelle persone che Elena incontra: la vicina di casa e i suoi segreti, i divani rossi come il fuoco, il pescatore di gatti neri che aspetta la Rivoluzione, simbolo di disillusione e di tempo perduto dietro alle fole di un’ideologia cangiante, i capelli biondi di una normanna, il verde acceso delle foglie di basilico, le scarpe dorate di una donna che guarda il mare. Tutti come punti di un mosaico, punti che, se li unisci, non portano a nulla ma intanto hai provato a disegnare un mondo.

Emerge un rapporto sanguigno con il luogo, isola che cattura chi la abita, opera incantesimi, abbaglia e si rabbuia. Isola descritta con sapienza, la sicilianità accennata mai banale e trita, riesce a evocare l’anima di una natura antica senza usare immagini abusate.

L’isola da cui Elena dovrebbe fuggire, ma che la trattiene in un limbo di incertezza costante, tra una madre che non c’è più (da molto tempo), ma di cui capiva le parole e il respiro, e un padre incapace di comunicare, assorbito in una battaglia individuale, combattuta da sempre con poche parole: Michele è un sopravvissuto alla Storia (da Moro a Capaci), cura il dolore fisico e morale a suo modo, esattamente come Elena.

A ognuno il suo dolore, a ognuno la sua cura: lui con la parmigiana di melanzane, lei con le mappe.

La parmigiana di melanzane, come le mappe dei tesori, è la ricetta contro la morte, l’elisir di resurrezione garantita che lenisce e disinfetta, la parmigiana che lo ha salvato da piccolo da morte certa, insieme alle cure della majara, più che quelle del prete; la parmigiana di melanzane, il profumo di fritto che sa di casa, quella casa da cui si fugge apposta per farvi ritorno; o da cui si vorrebbe fuggire e invece non si può: si può solo aspettare di sapere. La majara e la Signora, dall’altra parte il prete e i dottori.

Ma nessuno può restituire un’assenza, soprattutto quando è voluta. Quella non si cura.

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Il romanzo ha vinto il Premio Campiello Opera Prima edizione 2020.

[Foto di copertina: L’isola di Ortigia a Siracusa, olio su tela, Renato Guttuso, 1956].

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