Il Cagnolino

di Enrica Fei

Quando ero bambina rompevo le parole in due e le pronunciavo al contrario. Per “mamma” dicevo “mamma”, perché è una di quelle parole strane che non cambiano mai, ma per il mio nome, Margareth, mi bloccavo, e pensavo “Rethmarg”. Allora mi concentravo sul diminutivo, “Meg”, che al contrario diventava “Ghem”, che è un po’ tipo “Gem”, “gemma”. Non era il mio nome, e non mi piaceva, ma almeno significava qualcosa e riuscivo a dirla.

Ricordo bene quando a scuola parlavo così, spezzando le parole in due, cambiandone l’ordine. David pensa che abbia avuto un’infanzia difficile, che i compagni mi prendessero in giro, e non mi crede: non sono mai stata infelice. Da bambina, parlavo una lingua tutta mia, e le cose, quando le chiamavo, prendevano vita e parlavano solo a me: solo io potevo capirle. Poi ho visto tanti dottori, ho fatto tanti esercizi e, pian piano, le parole degli altri sono diventate se non facili, possibili. Ancora oggi, spesso, non parlo bene. Ma se mi fermo, mi concentro e strizzo gli occhi, ce la faccio. Quando ho conosciuto David, dieci anni fa, pensavo “amore”. Mi veniva “rèamo”, “morèa”, ma potevo dire anche “amo-re”, perché le parole, quando le spezzi, diventano più semplici. Non mi piaceva, però, perché erano due; non uno, come lui. Per questo, adesso, David è il mio taríto, non “marito”. Lui mi corregge, quando dico taríto, ma non capisce: taríto, nella mia lingua, vuol dire molto di più.

Questa mattina, come tutti i giorni, mi sono alzata prima di David. È ancora buio; lavoro in una biblioteca vicino a casa ma preferisco svegliarmi presto e passare un po’ di tempo da sola a guardare fuori. Abbiamo una grande finestra in cucina e attaccata alla finestra un tavolo. Prima il tavolo era in mezzo alla stanza, – Lo vorrei mettere qui accanto alla finestra, il tavolo, ho detto a David qualche tempo fa, – Scusa? ha risposto lui, non avevo detto “tavolo”, credo, ma “tàlovo”, mi sa. Oltre la finestra, di fronte a casa, c’è un grande spazio basso e piatto di erba bassa e fitta fitta; qualcuno la taglia, ma non sappiamo chi. – Sai chi taglia l’erba? ho chiesto ieri a David, – Non ho capito, ha risposto lui, e sì, in effetti, chissà cosa ho detto. Seduta al tavolo, apro la finestra. Rabbrividisco raccogliendomi nella vestaglia, è inverno, ma mi piace tantissimo guardare fuori. È buio e vuoto, può succedere qualsiasi cosa. Guardo seria la lunga distesa d’erba che si apre di fronte a casa. È un parco, un giardino, non ho mai capito. Forse è solo un prato che è un prato, come tutti i prati, ma continua infinito di fronte a casa e mi piace guardarlo e cercare il punto dove finisce, che non vedo mai. È piano, verde, immobile; sicuramente però si muove, da qualche parte. È silenzioso, ma sembra vivo. Mi guarda.

Ho messo la marmellata di arance sul tavolo, e la brioche vuota, e il caffè amaro, come piace a David. Lo faccio sempre, quando mi sveglio prima. Io non mangio a colazione, ma lui sì. Guardo la marmellata e dico piano “ramelàta”. La chiamo, nella mia lingua. E un omino arancione con la testa tonda piena di raggi, gli occhi piccolissimi e neri, esce dal barattolo e saltella. Ride, balla, è minuscolo. Gli offro il mignolo, lui l’afferra, si dondola con una mano. Poi ci sale sopra, va sull’altalena, c’è una piccola altalena sul mio dito. Scivola lungo l’indice, risale, scivola ancora. Esce dalla finestra, sale in groppa ad una piccola lucciola; il prato è pieno di insetti, piccoli e veloci, sghignazzano tra gli alberi e ronzano via. L’omino mi saluta dal dorso della lucciola e poi salta giù, torna a terra. Corre via nel prato.  

– Buongiorno, amore.

Sorrido a David che entra in cucina, trafelato come tutte le mattine. C’è un bel sole fuori, e l’aria è quella gelida e sottile dell’inverno. Mi piace sentirla sulle guance che pizzicano e poi, tutte raffreddate, si riscaldano sotto la luce del cielo chiarissimo.

– ‘Giorno Meg.

David è già vestito. Si siede al tavolo tenendo le gambe larghe, il busto diritto, il collo teso e concentrato sulla colazione che deve finire; è pronto per la giornata. Io, invece, tengo le gambe raggomitolate sulla sedia, l’ho sempre fatto, – Come una bertuccia, diceva mio padre quando ero bambina, “bert”, “cia”, bertuccia, una parola bellissima e difficile.

– In questi giorni col sole prendo una strada più lunga per andare in biblioteca…

Mi muovo leggermente sulla sedia, mi massaggio le mani; voglio raccontare questa storia senza perdere nemmeno una sillaba.

– Mhm mhm.

David fissa la brioche e la divora in un boccone, guarda il cellulare.

– Quella attraverso il con-… con-… conmeràgloto

David continua a guardare il cellullare, passa il dito veloce sullo schermo, dal basso verso l’alto, due volte.

– Il “conglomerato”, dici…

– Sì… e insomma sono passata da lì e l’ho visto per la prima volta …

– Non è arance rossa la marmellata, vero?

– No… era lunedì scorso, credo.

– … È la solita sì, buona.

– …

Mi fermo. Lo guardo mentre mangia la marmellata col cucchiaino dal piatto piccolo che gli metto accanto alla brocca di caffè tutte le mattine. Chissà perché non la mette sulla brioche.

David alza gli occhi su di me, è un attimo. Beve il caffè in un sorso.

– Ciao Meg, passa una buona giornata. Scappo.

Afferra le chiavi sul tavolo, si sistema la giacca, si guarda allo specchio accanto alla porta.

– Torno tardi stasera Meg. Ho un sacco di lavoro.

Mi bacia veloce sulla guancia, esce.

Rimango seduta voltata verso la porta. Mi stringo nelle spalle, mi massaggio le braccia. La luce del sole entra dalla finestra e io chiudo gli occhi. La sento sulle guance; le pizzica e riscalda.

La giornata è passata in fretta. Ho sistemato gli scaffali dell’area est. Dalla lettera “F”, nel database, ho catalogato i libri, gli autori; dopo la F, c’è la G, e poi la H – tanti autori nella H – e poi I, J, K, e così avanti, fino alla Z. Tutti a est. Li ho ordinati per autore, per genere: la poesia, i romanzi, i gialli, i rosa, i saggi, i fumetti. Nel computer, i libri si sono mossi e io mi sono immaginata di seguirli, di saltellare da uno scaffale all’altro, come loro. Poi è venuta Lucy, una bambina di 7 anni che legge tantissimo, un giorno sì e uno no viene a prendere un libro nuovo. Non riusciva a decidersi oggi, e io ero felicissima di prenderla per mano e consigliarla, mostrandole i luoghi segreti della biblioteca che conosco solo io. Abbiamo camminato tra gli scaffali, ci perdevamo, lei rideva e si nascondeva; “non sei scànta?” le ho chiesto nella mia lingua ridendo, e lei mi ha guardato interrogativa, – “scànta?” ha ripetuto seria, e poi – “stànca!”, ha detto ridendo, e io mi sono accovacciata alla sua altezza e ho riso, mi aveva capito.

Prima di uscire da lavoro e tornare a casa, scrivo a David – Tutto bene, amore? Tra poco torno. Tu? Sono le 17, c’è ancora luce, anche oggi prenderò la strada lunga, quella attraverso il conglomerato di appartamenti di lusso. Controllo il cellulare prima di riporlo nella borsa e incamminarmi. David ha letto, non ha risposto.

Cammino attraverso il con-glo-me-ra-to, una parola difficile, difficilissima.  – Con-glo-me-ra-to, Meg. Forza, “conglomerato”, non è difficile. C’è un grande spiazzo, prima degli appartamenti: l’asfalto piatto, grigio, e poi le case, i palazzi, le ville di lusso. David, quando ci siamo conosciuti, ascoltava la mia lingua. C’è ancora luce fuori: è come la cenere, il cielo, grigio e azzurro, e più in là, sul sole che tramonta, è quasi rosa. Poi è cambiato: io lo capisco, è faticoso con me, chissà cosa dico. La luna nel cielo rosa illumina lo spiazzo dei palazzi di lusso; sono quasi bianchi, sotto la luna rosa. Ma io non mento mai: le parole che dico, nella mia lingua, sono quelle che penso. Entro nella strada degli appartamenti, cammino svelta, non voglio fare troppo tardi. David non capisce: taríto, nella mia lingua, vuol dire molto di più.

Cammino spedita e lo vedo. È lui. Provavo a raccontare a David, questa mattina, di lui che incontro da una settimana. Non so dove vada, percorre ogni giorno esattamente la stessa strada. Un cagnolino. È un cucciolo, un bastardino, il pelo lungo e nero. Cagnolino. Io non so dire “cagnolino”, è troppo difficile. Cag-no-li-no. Ci provo col pensiero: Cag-no-li-no. Non mi riesce. Cag-nolino: non lo so dire, non importa. Cammino sempre più veloce, lo seguo, corro. Gli vado dietro, voglio accarezzarlo. Va troppo veloce, sta per svoltare, ora lo perdo, lo chiamo. – Cag-nolino! Lui si ferma.

Si ferma, si volta, guarda verso di me. Mi fissa immobile, la lingua a penzoloni, il muso allegro, sembra sorrida. Ha gli occhi azzurri.

Ora siamo a cena, io e David, uno di fronte all’altro. David non c’era quando sono tornata, – Sono stanco Meg, mangiamo, ha detto quando è arrivato. Io avevo già cucinato.

Ho preparato il branzino alle arance, il suo piatto preferito. David mangia sempre il suo piatto preferito. Vuole sempre il suo piatto preferito. David, ora, studia il branzino attento, come se fosse minato, pericoloso.

– David, amore. Le liche, le ho tolte.

– Le “lische”, dici.

– Le liche. Non importa.

David mi fissa un attimo e riprende a mangiare. Muove la forchetta dal branzino alla bocca guardingo, tasta con la lingua il pesce.

­– Come è andata oggi?

– Mhm mhm.

Muove la testa da sinistra verso destra, sbatte leggermente gli occhi.

– Il lavoro? Fatto tutto?

– Mhm mhm.

Resto in silenzio e lo guardo; ripeto i suoi suoni dentro di me. Lo faccio ogni due settimane dal logopedista che continua a volermi vedere anche se non me ne frega niente.

– Marc sta bene?

– Mhm mhm.

Li ripeto una, due, dieci volte; a volte finisco per immaginarmi le lettere. Diventano argentate, si muovono, si prendono a braccetto; qualche volta, anche, si invertono e sghignazzano.

– Laura è tornata a lavoro?

– Sì sì.

A volte invece no; le lettere rimangono tutte attaccate, immobili, verticali. Il suono diventa un puntino nero e minuscolo che volteggia.

– Come stai, David?

– Eh?

– Tu. Tu come stai.

– Scusa?

– Niente.

Le parole puntini si alzano e volteggiano; si infilano tra gli infissi, escono dalla finestra chiusa, sono piccolissime.

 – Ho visto di nuovo il cag-nolino oggi

– Eh? Il “cagnolino”, dici?

– Sì, provavo a dirtelo stamattina … È un bastardino strano.

– Mhm mhm.

È buio, fuori, silenzioso, freddissimo. Le parole puntini sono nere, le lettere tutte attaccate sono immobili.

– Il pelo lungo, nero…

­­– Mhm mhm.

Si perdono. Anche loro sono nere; nel buio del prato, scompaiono.

– E sai cosa?

David alza gli occhi su di me, non dice niente.

–  Ha gli occhi azzurri!

– Mhm mhm.

Appoggio il coltello, la forchetta. Alzo gli occhi su di lui. Lo guardo.

– David, ti prego. Parla.

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