di Antonio Fidel Mereu
Il nonno diceva sempre che per quanto un uomo ritenga d’aver condotto un’esistenza felice, questa non sarà altro, in fondo, che una mera collezione di miserie. Persona saggia, il nonno. Diabete. Crohn. Giallognolo. E poi cenere. Per lui avevo preso una febbre da 42 gradi. Visioni. Avrebbe voluto avere una vigna, sempre. Non ha fatto in tempo a vederla. Nemmeno in foto. Fortunatamente. Filari stretti, mancanza di impianto a goccia (cosa fondamentale, così almeno ho capito, per la viticoltura, credo frutto del nostro menefreghismo botanico: volevamo solo far felice un povero vecchio). Conigli.
Ormai anni fa, non ricordo di preciso quando (forse io dodici? Tredici? Già lavoravo; mio fratello lo avevamo mandato a stare dagli zii, informato diversi mesi dopo. Pianse a lungo). Io, mio fratello, la terra e uno zio fedele, ora, al letto. Bipolarismo, dicevano: Ci siamo sbagliati, può capitare, dicevano poi. Intanto ci siamo giocati anche lui. Farmaci errati. Dormiva, il nonno. Non se n’è nemmeno accorto, dicevano. Chissà. Padre di mia madre. Sordo. Involontariamente simpatico. Il solito vecchio che all’occorrenza era munito di ogni cosa, bastava cercare tra le scatole in garage. Fino ai miei dieci anni a casa non c’era connessione. Non c’è WI-Fi, dicevo. Dev’essere in garage, diceva, sarà in qualche scatola. Internet, spiegavo. Dopo una scudisciata insisteva che, se non lo avessi trovato, sarebbe stato a causa delle mie scarse abilità rovistative e della mia testa troppo grossa per un bambino. Comunque un bel ricordo.
Tutto era in garage. Anche la nonna, per lui, avremmo potuto seppellirla in garage, là dove lui solo l’avrebbe trovata, e riavuta, come lui voleva e doveva essere. Morta a più riprese, la nonna, in sei giorni. Lunedì, l’ultimo battito. Anni fa. Non entravo in quella casa da molti anni. Strano, oggi, varcarne la soglia, salire le tre rampe di scale, guardare giù. Vertigini. Residui di Rivotril e Lexotan, suppongo. Mai preso sul serio, il mio corpo. Smarrivo Me, delle volte, scagliandomi ombra lungo le pareti cieche della L del corridoio buio, a piedi nudi sulle mattonelle gelide cacao e miele, scansando con agilità gli spigoli dei guardaroba e i trofei di calcetto che tenevamo nell’androne, insieme alla collezione Dylan Dog e all’uniforme marcita di zio Sandro, custoditi avidamente come reliquie d’un santo, a causa delle ridotte dimensioni di quei minuscoli abitacoli col solo letto, e senza specchi, cassetti, riscaldamento, cui si accedeva inspiegabilmente per mezzo d’un gradino altissimo, insormontabile, e ora appena percettibile, che salgo, senza staccare neanche la pianta dal pavimento, scostando un poco la porta in legno, pesantissima, e già udendo scampanare Santa Caterina di lato sulla piazza del mercato, per rientrare in qualche modo fra gli ambienti vaporosi di quella casa con la vaga e sempre delusa speranza di riappropriami della mia perduta infanzia.
Per molti anni ho vissuto a Mores, nell’altra casa, tanti e più di quanti ne abbia passati dentro l’imbuto che è Ozieri, senza mai appartenere a uno o all’altro. Due mondi inconciliabili. Due comuni a sé disgregati, abbandonati, due identità comunque povere in egual maniera. Vivevo in un piccolo reparto dell’alimentari. Misero, la verità. Per via delle idiozie di cui è pieno il mio corpo, non potevo passare molto tempo in campagna, alla luce, dove il nonno si eclissava dalla mattina presto, con ancora le forze di passare i muretti a brincu quando non portava con sé le chiavi del cancello, o di intrufolarsi da una delle finestrelle della porcilaia, dove non esiste confine tra lo sterco e il fango, e in cui restava sotto il sole di sudore pieno e di vigore, come un eroe omerico o una bestia a digiuno da tempo, un poco flaccida, e stanca. Tornava con dei forzieri carichi di frutta fresca ancora umida, dalla pelle appena bagnata come di perle o di fatica anch’essa, che io con lui scaricavo in magazzino, nel garage, districandomi tra quelle mille scatole vuote di cartone mangiucchiato dalla muffa, conservate come oro sotto l’arena di un oceano d’ombre e intonaco caduto, sgretolato. Sudicio.
Sedevamo su una cassetta rovesciata nell’angolo più nascosto del locale, in cui perdevo alla lunga le giornate, vicino al battere della cassa di zia Pà, pizzicato dall’afrore del nonno, dalla plastica e dal puzzo di quelle scatole di tinta per capelli che credo nessuno abbia mai avuto abbastanza coraggio di comprare. Portavo con me una mela, sempre. Marcia. Con quella chiazza di fango molle lungo un lato. Disgustosa. La mangiavo. Non osavo guardarla, ma la mangiavo, cercando di scovare, nello specchio delle pale del ventilatore rotto, le cassette di frutta sul lato opposto del locale, in fondo, poco prima dei banchi frigo semivuoti, sì che la mela tra le mie mani, sotto la lingua e fra i denti, sarebbe riuscita a carpire il succo impeccabilmente fresco di quelle buone, di quelle laggiù in vendita, o il sapore della pesca-noce, o ancora dei chicchi del melograno spaccato, a seconda della fame, e del desìo. Allora la fantasia era tanta. Distorta già forse dai farmaci. Chissà.
Del nonno sapevo poco. Nulla. In fondo neanche m’importava. Le notizie sul nonno, a quell’età, erano tante quante erano le noci tra i rami nel frutteto. Un numero irrisorio. Qualche notizia circa un’infanzia vagamente triste, come tutti al tempo. Sposato nel 1943: la nonna veniva accompagnata lungo la navata dalla mano del padre e dalle bombe degli alleati, e non dal solito scampanare ecclesiastico. Una musica ben più originale. Allora vivevano nella casa poco più su della fontana vecchia, sotto lo stretto di Colombo, e la nonna era già sopravvissuta al primo di molti interventi al cuore.
Pochi anni. Riforma. Espropriazioni. Si erano trasferiti nelle terre della valle, in un podere, loro, i fratelli e le rispettive famiglie. Non c’era fotografia abbastanza grande da contenerli tutti.
Scoprii solo a quindici anni, causa le ambigue entrate in scena di mia madre, che il nonno, ormai morto, era il fratello di zio Ciano. Il volto del Ciano, irriconoscibilmente giovane, di colpo era apparso noto in ogni foto, familiare. Fu come trovare il secondo scomparto di un cassetto aperto, prima non veduto, là da qualche parte, nella memoria. Anche il Ciano viveva in quella casa, prima di trasferirsi nei cameroni ora abbandonati, spettrali, dall’aria per così dire sconsacrata o di estrema rovina, delle ferrovie dello stato in cui aveva preso servizio come forapabile. Non cambiò nulla, eppure tutto: come si usa dire, non fu più lo stesso.
Da allora ho come l’impressione che i morti riemergano poco a poco, non già d’un tratto, tutti in una volta: gradualmente, tornano per riappropriarsi a ritroso della vita trascorsa linearmente, spogliando quella minuta esistenza di un segreto alla volta, come una donna la prima notte di nozze.
Sono tornato qui per raccogliere le ceneri. Spostare qualche scatola, tirare via la polvere dai mobili. La casa, oggi, sembra essere abitata dal solo Sandro. Riviste di equitazione. Medagliette dell’Arma. Fotografie. In mia presenza il nonno non ne ha mai fatto il nome, solo la zia Pà, con qualche dura lacrima e senza voce. 2000. Il ragazzo, ex giocatore di calcio, lavorava con due suoi fratelli nel negozio di generi alimentari della famiglia, al centro di Mores. Gravi traumi al torace e alla schiena. In casa, polvere, e cataste di ricordi ormai appassiti. Traccia degli altri figli del nonno: nessuna. Hanno abitato qui a lungo, dopo la sua morte, il fallimento dell’alimentari, ma rimane solo Sandro, morto con vent’anni d’anticipo su tutti. Dolore senza suono. Persino la nonna, costretta a letto dai ripetuti ictus, gli è sopravvissuta, per un po’, e con lei il nonno. «Quell’uomo che li portava di là dalla strada, senza tenerli per mano e men che meno voltarsi» disse mia madre indicando me e mio fratello molto serenamente, durante una delle ultime cene a casa del Ciano, «per fargli lanciare da quel triangolo d’asfalto davanti il macellaio qualche chicco di ghiaia oltre la ringhiera, in assenza delle cipolline che i bambini venivano allora a comprare da noi all’alimentari per giocare in strada nel periodo di carnevale, da quello stesso spiazzo, lo vidi risalire la strada che viene su dal cimitero, verso il Banco di Sardegna e la vecchia sede del coro, quand’ero appena una bambina. ‘Chi è quell’omino con una bustina in plastica legata ai polsi’ ci chiedevamo, guardando attraverso le sbarre dell’inferriata. ‘Babbo! Mì a babbo!’ gridammo, e la mamma ci guardava romperci in pianto dalla soglia dell’alimentari, sorretta da zia Pà, mentre io gli correvo incontro tenendo Sandro tra le braccia. Aveva appena tre anni e non aveva mai visto suo padre, ché al tempo ci aveva lasciati da soli a casa con la mamma che, già malata da alcuni anni, ci aveva cresciuti in completa solitudine, perché lui era partito per la Fiat, come tutti, come quando si emigrava in America, per andare a dormire in quei freddi cameroni sovraffollati, ammassati uno sull’altro, dal momento in cui venne fuori che, in Sardegna, l’industria non sarebbe mai partita.»
Così affioravano i ricordi, e con loro il nonno e la sua famiglia, quelle vite di cui ho sempre saputo poco e che mai ho approfondito: i morti, da prima minuti in fondo a una discesa, sfocati, prendono poi forma gradualmente, quando si fanno più vicini, in quei brevi istanti di vita riconquistata, a volte anche così: con una bustina di panni sporchi e un panino lasciato a metà durante il viaggio. Li sistemo uno di fianco all’altro in una delle scatole recuperate giù in garage, per tenere insieme la certezza di avere avuto una famiglia, che questa sia esistita e che io, anche, avrò domani un passato, qualche certificato, delle foto, spillette e quanto basta.
Già tardi. Non ho concluso nulla. Scendo le scale uncinando il corrimano, ed esco dal portone con ancora molto lavoro da fare prima di lasciar la casa ai nuovi proprietari.
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Antonio Fidel Mereu nasce nel 1998 in Sardegna. Completati gli studi classici, entra a far parte di
un’attività ricettiva turistica a conduzione familiare. Ancora cerca di capire come utilizzare i social
network di cui è al momento sprovvisto. Da un po’ di tempo scrive, principalmente legge.