di Carlo Benedetti
No, non quei libri sacri. Non parliamo di religioni.
Come società, adoriamo “buttare via”. Negli ultimi anni il Giappone ci ha insegnato il liberatorio potere del riordino[1], ossia del buttare le cose inutili. Questa versione edulcorata dell’immondizia, assieme alla sorella più volgare che si presenta sotto forma di posate, contenitori, tovaglie, abiti, telefoni cellulari usa e getta, rappresenta il nostro tempo più di tanti artefatti culturali. La costante e a tratti isterica smania di disfarsi di oggetti a una velocità sempre crescente ci caratterizza. Buttiamo di tutto: nell’Europa a 27, nel 2014, abbiamo prodotto 2.503 milioni di tonnellate di rifiuti, 5.000 Kg ad abitante all’anno. Nonostante la crisi economica, è una cifra in costante aumento dal 2004.
Eppure, sui giornali locali o nazionali o sui siti di informazione, scoppia ciclicamente un’effimera polemica per un cassonetto trovato pieno di libri, magari nei pressi di una biblioteca comunale o di una scuola.[2] Buttare dei libri è un tabù, uno dei pochi rimasti, che unisce tutti in una condanna senza appello (anche chi, come l’Associazione Italiana Librai, ne avrebbe tutto da guadagnare[3]).
Chi ha lavorato, anche solo di passaggio, in una biblioteca, sa bene che lo scarto dei libri è necessario: lo spazio sugli scaffali non è infinito e cozza inesorabilmente con la necessità di offrire informazioni aggiornate e rilevanti agli utenti. Una biblioteca che offre un’enciclopedia in 24 volumi degli anni ’60, ma nessuna novità editoriale dell’anno in corso, è una biblioteca gestita male. Esistono biblioteche apposite per conservare la memoria di tutto quello che è stato pubblicato (e in italia sono le due Biblioteche Nazionali Centrali di Firenze e Roma), ma la stragrande maggioranza non devono essere un archivio universale (come potrebbero?). Per essere utili, le biblioteche devono essere porte di accesso ad una conoscenza aggiornata, contemporanea e costantemente in divenire, proprio come la vita.
Perché, allora, buttare un libro sembra un gesto sacrilego?
Per primi, ci sono di mezzo i sentimenti. Chi ama la lettura sa che un proprio libro non è solo un oggetto, ma è la storia delle emozioni che abbiamo provato, dei pensieri che abbiamo avuto, leggendolo. Il libro diviene simulacro delle nostre lacrime, delle risate, delle riflessioni che le parole hanno evocato in noi. Gettarlo equivarrebbe a disfarsi di una parte, piccola o grande a seconda del libro, di chi siamo. E, in questo senso, finché le nostre librerie, i nostri tavoli e perfino i nostri pavimenti, hanno abbastanza spazio per i libri, forse non dovremmo disfarcene.
Ma spesso non vogliamo disfarci neanche di libri che non abbiamo letto e che non leggeremo mai. O ci dispiace veder buttare libri da parte di biblioteche e archivi pubblici (che per loro natura, non si affezionano). Ci dispiace veder buttare anche i libri che hanno perso ogni loro utilità: davvero qualcuno andrà a rileggersi le centinaia di pagine di statistiche della Regione Toscana del 1983 sull’agricoltura ora che sono tutte disponibili online? Un atlante De Agostini dell’88 che indica ancora l’Unione Sovietica, ci serve davvero? O riteniamo utile conservare i due tomi di preparazione ad un concorso pubblico di 15 anni fa, ormai inservibili?
Oltre ai sentimenti, quindi, c’è qualcosa in più: un’aura che circonda l’oggetto-libro, a prescindere dal suo contenuto, e che lo identifica come elemento di un sapere alto, sempre prezioso, custode di una memoria che non deve mai essere cancellata. Un manuale di medicina dei primi anni ’50 vale quanto uno odierno o quanto una raccolta di racconti pubblicata in proprio da un vicino di casa. In altre parole, il libro viene resacralizzato, trasformato in un oggetto con una particolare potenza e che richiede un comportamento diverso rispetto a tutti gli altri oggetti.
Per quanto sia impossibile definire il Sacro, se lo osserviamo in una prospettiva di studi storico-religiosi, cercando di risalirne all’origine, scorgiamo all’inizio di tutto l’emozione prodotta dall’incontro con fenomeni eccezionali: i cambi di stagione, il potere dei re, le guarigioni inspiegabili.[4] Un oggetto sacro è quindi un oggetto con cui si interagisce di rado, in maniera codificata, e la cui natura è insondabile, spesso distante da noi e, nella cultura occidentale contemporanea, relegata ad ambiti ben limitati e distinti dalla vita di tutti i giorni.
Resacralizziamo i libri perché li utilizziamo sempre meno. Allo stesso tempo, siamo terrorizzati dall’idea che una parte della “Conoscenza”, da cui ci sentiamo sempre più distanti, vada perduta. In Italia, nel 2018, una famiglia su dieci non possedeva nessun libro. Ma anche nei casi in cui era presente una libreria domestica, il numero di libri disponibili è minimo: il 31% delle famiglie, quasi 1 su 3, possiede non più di 25 libri[5]. Eppure – o meglio, forse proprio per questo – il libro è il simbolo, più di un computer o uno smartphone, di conoscenza e cultura.
Gli sforzi fatti per promuovere la lettura, specie nei giovani, non sembrano avere grandi risultati: le statistiche sulla lettura sono pressoché stabili, sebbene basse, da vent’anni e leggermente in declino per le fasce giovanili. C’è da chiedersi se non sia anche perché tutte le campagne promozionali per la lettura e i libri adottano, consciamente o inconsciamente, lo stesso approccio: i libri sono “sacri”, importanti, essenziali, buoni. Leggere ci apre la testa, ci trasforma, ci rende migliori[6]. A quale adolescente verrebbe voglia di averci a che fare?
Nel medioevo parzialmente immaginario de Il nome della Rosa di Umberto Eco, la biblioteca era luogo riservato a pochissimi eletti. I monaci veneravano i libri come blocco oscuro e incomprensibile. Perfino gli amanuensi copiavano senza capire bene perché. Per un contadino o un artigiano possedere un libro era impensabile. Tutti, però, riconoscevano il valore dei libri ed erano disposti a morire per custodirne i segreti. Sono solo io o iniziano ad esserci un po’ troppe similitudini con il nostro tempo?
Buttiamo i libri inutili, maneggiamoli come fossero utensili d’uso quotidiano – quali in effetti sono. Malediciamone alcuni, tornando a distinguere fra buoni libri e cattivi libri, tra letture utili e letture inutili. Godiamo delle discussioni che seguiranno con chi ha opinioni opposte alle nostre. Usiamo i libri invece di santificarli. Un saggio o un romanzo, nella migliore delle ipotesi, non sono l’ultima frontiera da difendere, ma mattoni con i quali costruire le nostre personali storie nella Storia che ci circonda. Sono strumenti che ci aiutano a costruire senso, risorsa scarsa in questi anni.
Usiamo i libri perché, nonostante tutto, sanno ancora fare quello per cui sono nati qualche migliaio di anni fa: esplorare, raccontare e raccontarci. Non sono il coronamento, il culmine, ma piuttosto una delle tante forme a cui la scrittura ha saputo adattarsi. Ed è, forse, da questo che possiamo ripartire: non indignandoci quando alcuni libri sono scartati, ma piuttosto tutte le volte che una biblioteca non ha le risorse per comprarne di nuovi, più utili, che parlino proprio a noi di tutte le infinite cose da cui è composta la nostra vita (dal giardinaggio alla filosofia hegeliana). Se amiamo i libri, lasciamoli andare: ci torneranno indietro moltiplicati.
[1] Una serie di libri su come riordinare sono diventati bestseller. Per citare solo i più conosciuti: Marie Kondo, Il magico potere del riordino, Milano, Vallardi, 2014; Nagisa Tatsumi, L’arte di buttare: come liberarsi dalle cose senza sensi di colpa, Milano, Vallardi, 2016
[2] Una breve carrellata: https://bit.ly/37jwvjA; https://bit.ly/2srFtg5; https://bit.ly/39mU5hd; https://bit.ly/351jppW
[3] Si vedano, ad esempio, i loro social: https://tinyurl.com/yhjc8pry
[4] Si veda, per una sintesi, Sacro, Enciclopedia Treccani, disponibile online: http://www.treccani.it/enciclopedia/sacro/
[5] ISTAT, Produzione e lettura di libri in Italia – Anno 2018, 2018
[6] Si veda, fra tutte, la campagna “Io leggo e tu?” del Ministero per i Beni Culturali
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[Immagine di copertina: “Lost library”, Marek Hlavaty, 2009, www.prasart.com]