di Stefano Patrizio
“Viviamo in questa piccola isola scontrosa, avremmo bisogno di parlare, tra di noi. Ma non abbiamo appena buttato gli ultimi due anni a girare attorno alle situazioni, senza risolvere niente?”, D. Albarn in un’intervista per il Guardian (trad. dell’Autore)
C’è un nitido senso della fine non tanto imminente quanto già avvenuta nel nuovo disco de The Good, the Bad and the Queen, la terza (ennesima?) formazione che vede Damon Albarn come leader, front man, voce e autore dei testi delle canzoni.
La fine, la partenza, in alcuni casi la morte, una separazione sono evocate sin dal primo brano.
Albarn parla dell’Inghilterra, c’è molto della Brexit nel disco. Ma noi di Inghilterra e di Brexit non sappiamo niente, per cui la fine e la separazione di cui sopra possiamo appiccicarle a cosa ci pare.
Come sarebbe bello parlare del “gradito ritorno”. Tutti noi vogliamo (o per lo meno dovremmo volere) bene a Damon Albarn: per i Blur, per i Gorillaz, per The Good, the Bad and the Queen, per le sue cose da solista. Per essere un figo, un genio, un grande canzonista, punto di riferimento per lo stile figo nel vestire, nel comporre, nel cantare, un’immagine mainstream assolutamente accettabile e di indubbio fascino. Un’ottima opportunità, qualora ci fosse concesso scegliere, per un’eventuale reincarnazione. Sarebbe bello fare la recensione del “gradito ritorno” dopo aver aspettato per undici anni il secondo disco di questo gruppo in cui ci sono anche l’ex bassista dei Clash, il batterista storico di Fela Kuti e l’ex chitarrista dei Verve. La rimpatriata tra vecchi amici, quelli che vedevamo tutti i giorni al liceo o i primi anni di università, quei tipi di conoscenze superficiali date dall’abitudine e dalla leggerezza, che poi ci si perde di vista ma tutto sommato non ci si pensa neanche tanto più, dopo un po’.
Ma siamo stati per anni a girare intorno alle situazioni, senza risolvere niente. Il tempo è finito, la nave è partita (Lady Boston), la storia d’amore è finita (The poison tree), resta un rudere malmesso in cui non cresce niente (Merrie Land). E tutte queste giunte al termine non sono nemmeno tragiche, stanno li ferme, a farsi cullare dalle melodie e dalle tessiture placide, mai acide, sostenute, eleganti, calde come un abbraccio di una persona che ti vuole bene.
Perché ci eravamo tutti, a girare in tondo, attorno alle cose, e ora è il momento, invece, di consolarsi ricordando che ognuno sta e può stare accanto (“I’ve got your back” canta in gaelico il coro di Lady Boston).
(N.d.A.: con la presente si esprime vicinanza emotiva e solidarietà ai compagni, in Italia e Rojava, che piangono la scomparsa di Lorenzo Orsetti)