Losers

di Giovanna Daddi

Da Antigone a Obi-Wan Kenobi: un saggio critico sul loser

Antigone, che si solleva contro le leggi divine e le leggi dello stato, muore. Nella tragedia greca il Fato traccia un disegno già scritto per gli umani, che essi tentino di combatterlo o meno. Una condizione di ineluttabilità che si ritrova, così drammatica e senza scampo, nei personaggi verghiani. Ma anche in Fantozzi. Con la differenza che ciò che i greci chiamavano Fato, Fantozzi chiama “Catellani carissimo”. Riuscendo, infine, a batterlo nella più epica delle scene: quel biliardo divenuto epopea moderna e emblema di riscatto. Tanto più eroico proprio perché perdente in ogni singolo momento della sua esistenza, in ogni singola molecola del suo essere, Fantozzi diventa in quel momento come un Ettore che non muore ma sconfigge Achille e salva il piccolo Astianatte e tutto il suo popolo.

Sì, capisco che il paragone possa sembrare azzardato, ma ogni moderno scrittore o cineasta, nel tratteggiare la figura del loser perfetto, ha sicuramente avuto ben in mente la tragedia greca, Shakespeare, Giovanni Verga e ovviamente il più moderno e psicanalitico dei perdenti: Zeno Cosini.
Zeno, adorabile creatura sveviana, che alterna i propositi più eroici alle sconfitte più cocenti, in un bipolarismo infinitamente tenero, ipocondriaco perennemente intento nell’impossibile impresa di smettere di fumare, precursore della psicosi e dell’irrequietezza dell’uomo contemporaneo, tanto vicino eppure creato nel 1923.
Noti sono gli accostamenti della critica alla figura di Charlot, forse perché entrambi appaiono, nel loro essere così troppo umani, quasi delle caricature: analizzano le sciagure umane, ne incarnano i tentativi e le delusioni, le sfighe e le illusioni, rappresentano tutti noi nel momento in cui, di solito intorno ai 35 anni, ci accorgiamo con un certo stupore che quel nostro “cosa vuoi fare da grande – l’ingegnere alla Ferrari” è nel frattempo divenuto “lavoro al Pignone” o cose così.
Che non c’è niente di male, beninteso! Ma lo scarto tra il sogno e la realtà a volte è troppo fastidioso per imputarlo lucidamente a noi stessi e preferiamo imputarlo al Fato, ci crogioliamo nella nostra condizione di losers trovando sempre qualcuno o qualcosa da incolpare, o semplicemente quando non è colpa di Lucy magari è colpa di Snoopy, e in fondo meglio attaccarsi a una coperta o scrutare malinconici un campo di meloni.
Anche perché Charlie Brown è un gran figo, e nessuno lo può negare, con le sue ansie e le sue paranoie a cui non ci si può che affezionare, di più anzi, i suoi tratti caratteriali assurgono a valore simbolico.
Vagamente bullizzato dai suoi amici, un po’ come quell’altro tenerissimo perdente che è stato il Cioni Mario di Berlinguer ti voglio bene, perseguitato dall’immenso Monni/Bozzone, disadattato, solo, periferico e provinciale Charlot di Vergaio tra case del popolo, fighe mai viste, bottiglie nei jeans e miti politici a cui guardare come unico riscatto possibile, bassezze indescrivibili, assurdi sfoghi di poetico e vaneggiante turpiloquio lanciati contro il cielo rosso e strano della piana più desolata, con bambine rompicoglioni che sbucano dal nulla.

Sono in realtà lo stesso tipo umano, lo stesso personaggio ricorrente, a rimarcare l’urgenza evidente di rappresentare la nostra stessa condizione di subordinati, prima, in antico, al fato, poi al “sistema”, poi ancora alla nevrosi della grande metropoli, all’alienante mondo post-industriale, dominato e oppresso dai media. Ci muoviamo impauriti dal non essere abbastanza, terrorizzati, sotto sotto, dalla paura di essere soli e inadeguati.
La vita ci sconfigge, spesso e volentieri, magari nelle piccole cose, ma è come la goccia cinese che alla lunga scava un solco, e a cui noi rispondiamo votando Bersani e preferendo da sempre Paperino all’antipaticissima perfezione di Topolino, preferiamo quelli che scivolano e inciampano nelle cose, che non vincono nemmeno delle elezioni già vinte cazzo, vogliamo bene a Obi-Wan Kenobi, sentiamo che Clark Kent è un nostro simile mentre Superman…beh, è Superman e su di lui c’è poco da ridire.
Amiamo Woody Allen perché dà una rappresentazione decisamente cool degli sfigati: il personaggio inquieto, maldestro, imbranato, ipocondriaco, irrisolto ma allo stesso tempo involontariamente snob, esasperato dall’ignoranza della massa ma anche dal successo cafone, che non si vende mai e poi mai, che non sopporta chi parla al cinema e non può entrare in ritardo neanche di un minuto nella sala, che disprezza le produzioni TV spazzatura, che quando deve andare a ritirare un premio cerca ogni pretesto per rimandare, oppure viene colto da cecità psicosomatica quando finalmente gli viene offerta la possibilità di tornare al successo. Quello che sfotte il potere “la lingua del Bananas da oggi sarà lo Swahili” e l’ipocrita moralismo d’accatto paradigma dominante del successo.
Dall’inetto Virgil di “Prendi i soldi e scappa”, a Sam, all’Alvin di “Io e Annie” che, con la sua invincibile tensione a perdere nella vita, sempre e comunque, e tutto, dai soldi all’amore, ci dice “la vita è piena di solitudine, di miseria, di sofferenza, di infelicità e disgraziatamente dura troppo poco”. E comunque la California è il male.
Dall’ipocondria esilarante che Harry usa come alibi per non vivere le situazioni in cui ha timore/certezza di fallire, alla nevrotica sola e incolpevole Jasmine, che paga per colpe non sue e si ritrova lì, su una panchina, in compagnia della propria depressione.

Ma se in Woody Allen il perdente vince perché l’intelligenza e l’ironia lo portano a farsi beffe della sfiga, ci sono anche quei perdenti completamente tragici in cui il concetto di loser si estende dall’individuo alla società intera: dal Sonny di “Dog Day Afernoon” al Trevis Bickle di “Taxi Driver”, da Palla di Lardo di “Full Metal Jacket” all’enormità di Cristopher Walken in “The Deer Hunter” di Cimino, il sogno americano si frantuma fragorosamente, deflagra come un’esplosione atomica in faccia allo spettatore, il quale è al tempo stesso protagonista di una parabola socio culturale che lascerà più morti che vivi al suo seguito, proprio come la Guerra Che l’America Ha Perso, e che appannerà la bellezza del loser, la sua pretesa nobiltà, durante l’era dell’edonismo reaganiano. Così i romanzi di Coe ci hanno raccontato magistralmente lo stesso fenomeno di qua dall’Oceano, regalandoci perdenti totali, vittime dell’annientamento sociale, politico, economico portato avanti caparbiamente dalla Tatcher, l’Inghilterra in cui il successo era diventato più importante dell’essere, in cui i perdenti diventarono brutti, sporchi e cattivi. E spogli di ogni timore inventarono il Punk.

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