Lei che non tocca mai terra

di Il Mondo o Niente

di Giulio Papadia

Lei che non tocca mai terra, Andrea Donaera, NNEditore, 2021

Gallipoli, gennaio 2008. Al termine dell’anno appena trascorso, Miriam è finita in coma, una letargia nera dalla quale i medici tentano di scuoterla. C’è una possibilità su cui fare affidamento, la cosiddetta talking cure: in sostanza, familiari e amici della ragazza sono spronati a farle visita e a parlarle, si deve sperare che la giovane abbia la forza di aggrapparsi a qualche brandello di vita, a un ricordo, a un’emozione, per destarsi da quel sonno profondo. C’è sua madre, nervosa e collerica, c’è suo padre, uomo rozzo e perennemente occupato ad “ascoltare i cittadini” visto il suo ruolo di sindaco, c’è la Gabry, l’amica di una vita che si è trasferita a Bologna e invia delle registrazioni, c’è Andrea Donaera, un ragazzo che stravede per Miriam e che con lei ha passato la notte precedente all’incidente. Si sono conosciuti in un locale, il Baby Lone.
Andrea le ha sorriso e l’ha approcciata con una frase che sembra inventata di sana pianta per quanto è strana: il suo nome, dice, anagrammato diventa “Andrea o Andrea”.
Miriam è incuriosita e allo stesso tempo restia a lasciarsi avvicinare, subisce quotidianamente tentativi di abbordaggio, ma poi cede. Dopotutto quel ragazzo ha un modo di parlare che lo rende interessante, ha occhi scuri e buoni. La stessa sera, dopo aver chiuso in maniera brusca e incomprensibile con Andrea, Miriam si incammina sulla provinciale. C’è solo buio e disperazione, quando la ragazza è in coma e ricorda quei frammenti, ci sono i suoi piedi che scalciano a vuoto, c’è il nevischio e il freddo, la terra nera e i rami degli ulivi che si stagliano argentati contro la luna. C’è, infine, un bagliore abbacinante, il rumore di un’auto che si avvicina, c’è l’impatto. C’è solo buio e disperazione dopo quella notte, e non solo per Miriam. Sua madre sprofonda nell’abulia più assoluta, suo padre si dispera e smuove tutti i suoi contatti per trovare il bastardo che l’ha investita. Andrea, invece, dopo tre settimane in cui si isola da tutti, torna a frequentare papa Nanni, il santone di cui è diventato discepolo. Se la fede è in grado di dare risposte a ciò che sembra privo di senso, è papa Nanni la persona giusta. Sembra un pazzo, ma parla bene, è inquietante ma col suo tono di voce e la sua barba bianca sa rassicurare. La gente va a trovarlo quando è dilaniata dalla sofferenza, e il guru la libera praticando un esorcismo particolare, effettuato mentre batte forte il ritmo del tamburello. Il giovane ricomincia a parlargli di Miriam, papa Nanni è elusivo e irremovibile: c’è del Male in quella ragazza. Ci sono tante cose che Andrea non sa e che l’incidente di Miriam potrebbe risvegliare, ci sono tante ombre che popolano quel santuario e che si stanno affollando attorno a lui e a papa Nanni.

Alcuni luoghi sembrano incasellati in maniera irreversibile in una categoria, quella del territorio a vocazione turistica. Si tende a immaginarli come una sorta di paradiso intoccabile, o almeno così vorrebbero agenzie viaggi e social media manager. È un’ovvietà dire che non sono così, forse suona anche un po’ assurdo che ci si debba servire della letteratura per ribadirlo. È il caso, per esempio, di Gallipoli, meta che viene da ormai un ventennio di afflusso incontrollato da ogni parte d’Italia e d’Europa. Andrea Donaera, reduce da un esordio folgorante e apprezzatissimo dalla critica e dal pubblico (Io sono la bestia, 2019, Premio Giallo al Centro e finalista Premio POP), ha iniziato a introdurre questo argomento in un articolo su “Domani” nell’agosto scorso: Gallipoli, sua città d’origine, è un po’ una Twin Peaks mediterranea. Il paragone può sembrare la semplice iperbole di uno scrittore, ma vuole affermare un concetto molto semplice: le spiagge della Baia Verde, l’acqua cristallina, la natura incontaminata sono solo una parte di Gallipoli, l’unica a essere raccontata. In verità è letteralmente il luogo dove tutto è possibile, dove la normalità della cittadina di provincia può essere sconvolta dalla banalità del male che si annida dove meno si potrebbe sospettare, l’ideale posto dove si può collocare un buco nero di disperazione che altera ogni cosa. Se il Male presente in Io sono lo bestia era quello terreno e terribile della Sacra Corona Unita, nel nuovo romanzo viene abbattuta la parete del reale per coinvolgere dimensioni differenti: la religione, la mistica, il soprannaturale. Dovendo usare i riferimenti disseminati nei due romanzi di Donaera per ricostruire una sorta di mappa della sua piccola Twin Peaks personale, probabilmente troveremmo una sorta di Loggia Nera nei pressi di un tetro e oscuro santuario di campagna, quello di Santa Venardia. Già nominato nel romanzo d’esordio, in relazione a un covo utilizzato dai mafiosi, è un luogo che, a dispetto della sua sacralità, sembra irradiare malignità, attirare eventi inconsueti, inghiottire il bene e la luce. Gallipoli è quindi il perfetto teatro in cui costruire un universo letterario di finzione, come la Leith di Irvine Welsh, un microcosmo in cui le varie narrazioni possono finire per convivere e magari connettersi.

La narrazione occupa lo spazio di un’intera settimana, da lunedì a domenica, e si chiude il 20 gennaio. Tutti gli eventi precedenti, sia l’incidente occorso a Miriam che i fatti ancora più datati, sono richiamati alla mente come ricordi recenti e non, affiorano nella mente della ragazza in un loop continuo di fredde memorie, o nelle parole degli altri personaggi. Si può affermare, quindi, che la trama propriamente detta finisca per essere incredibilmente esile: tutto è già successo, non resta che scavare, riportare alla luce e ricomporre. Lei che non tocca mai terra è un romanzo corale in cui i vari personaggi narrano in prima persona per lo spazio di un capitolo. Le sessioni di talking cure possono essere lette, in quanto veri e propri monologhi rivolti alla protagonista, come una sorta di evoluzione del concetto di romanzo epistolare o della forma diaristica, sono una perenne seduta di autoanalisi, sfoghi magnificamente aderenti all’informalità del parlato ma che non rinunciano mai a un certo lirismo. Attraverso un mix calibrato di realismo e parti oniriche, preparazione in vista del crescendo finale, l’autore sembrerebbe fornire una ulteriore chiave di decodifica da usare in senso generale: anche quando i giovani si trovano in situazioni disperate, a contatto con demoni concreti o metafisici, è probabile che le responsabilità risiedano nel passato e nelle scelte delle generazioni precedenti.

In chiusura, va ribadito a costo di suonare lapalissiani che l’Andrea Donaera personaggio non coincide, ovviamente, con l’autore. Ci sono probabilmente dei lati in cui storie, vissuti e caratteri risultano sovrapponibili, altri in cui i due divergono in maniera diametrale. Siamo di fronte quindi a un romanzo che si inserisce, anche se in maniera poco ortodossa, nel filone dell’autofiction, o della riscrittura finzionale di sé, un romanzo nero – come la sua copertina – ma con importanti venature quasi da romanzo rosa, dato che in definitiva l’Amore diventa motore immobile e unico antagonista del Male.

[Immagine di copertina: senza titolo]

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