Confessioni di un pédé

di Il Mondo o Niente
confessioni di un pédé

di Stefano Serri

Avrei dovuto studiare musica.
Avrei scritto canzoni, al posto di questi monologhi contorti che non riescono nemmeno a diventare pagine di diario: con una buona musica e una voce calda, puoi farti perdonare anche di avere amato male. Male e molto. Un bel disco con almeno dieci brani; ci metti dentro alcuni incontri occasionali, qualche ballata, due o tre ritratti. Con un album del genere, avrei potuto rendere più armonica la mia diversità che molti schifano, togliendomi di dosso l’etichetta di pedofilo.
Invece, come promesso, ti scrivo alcune pagine di ricordi, per capire insieme perché sono arrivato a fare quello che solo tu conosci nei dettagli. Se volessi essere onesto, almeno con te che sei mia sorella, dovrei dirti la città dove sono scappato, ma è talmente lontana che non penseresti nemmeno di venire fino a qui.
Per confessarmi meglio devo lasciare in bianco alcuni punti. Non troverai nemmeno la mia firma, ma tu sai chi è il mittente.

La prima estate dopo la separazione dei nostri genitori potrebbe essere l’inizio di tutto, anche se la psicanalisi non mi ha mai convinto. È più bello svelare se stessi senza lasciarsi scoprire. Nell’estate del Novantadue ero già in balìa di questa mia giostra affettiva. Nostra madre aveva da poco il suo nuovo compagno, un uomo che usava premure senza essere servile, capace di alzare la voce e di chiedere scusa. Masticava il mio nome con garbo; io, poco più di undici anni, senza paralizzarmi davanti alle effusioni dei grandi, me lo trovavo per casa e lui mi trovava; eravamo due ospiti attenti a fiutarsi e a capire che cosa li possa allacciare.
Si chiamava Carlo. Al mare, lo sentivo sempre alle mie spalle. Poi il braccio di lui mi agganciò per invitarmi a seguirlo nell’acqua. Un sorriso imbarazzato ed ero già tra le onde. Nell’acqua lo avevo ancora più addosso, non era da molto che avevo imparato a nuotare e lui mi guidava. Esibiva una carne solida e bruna, quando usciva dal mare, mentre io, pallido e smilzo, restavo nel mare macchiato del mio primo orgasmo involontario.
Lo raggiungo sulla sdraio, tra nostra madre e gli amici, sotto il solito stormo di cuffie, tinture già spente e i costumi appesi che non c’entrano nulla con i corpi dei loro padroni. Stanno discutendo, tra non so quali carte, tutti agitati e smaniosi. Vedendo il petto di Carlo aprirsi mentre indicava punti segreti sopra un foglio, fu istintivo accovacciarmi su lui: grazie per aver nuotato con me, gli dissi, e poi: papà. I sorrisi affettuosi troncarono i discorsi; trombe di vittoria squillarono negli occhi di mia madre. Carlo ricambiò quel battesimo con un abbraccio fortissimo: lo custodisco con cura nel portagioie intimo della memoria. Lo farò, anch’io, sì, lo farò – mi dicevo – quando sarò un uomo. Darò la forza con il mio abbraccio ai più piccoli.
Avrei dovuto scrivere altro, lo ribadisco, non certo questo strazio di biografia sommaria. Il mondo, invece che di estenuanti confessioni, avrebbe bisogno di ninne-nanne gentili per le coscienze stancate dal trascorrere del tempo.

Dare ripetizioni è un’ottima copertura, ma solo finché rimani sotto la trentina. Dopo può esserci qualche madre prevenuta, insospettita dal sudore troppo forte sulla pelle di suo figlio o dal dimagrimento che spesso scava gli amanti all’inizio del rapporto.
Il primo allievo fu Lorenzo, fratello di una compagna di liceo. Con lei, profonda ma non penetrante, avevo abbozzato una timida storia d’amore, fino a concederle lunghi baci insolenti. Il fratello aveva due scapole quasi ridicole e sul collo un po’ torto la testa sembrava rimproverare il mondo, con quei ricci che non curava. Il sorriso, invece, era una specie di dono; ogni volta sembrava irripetibile, ma eccolo ancora: senza aspettarne la fine, già lo vedevi di nuovo.
Per soddisfare i professori, Lorenzo non aveva certo bisogno di me, racimolando voti decenti con minimi sforzi. Dalle tre sorelle maggiori aveva assorbito parecchi insegnamenti, sbrigando gli studi senza fatica. Ma lungo il ginnasio s’era fatto indolente, riportando una serie di quattro in matematica. Fu quello il pretesto perché la sorella chiedesse il mio aiuto. Le lezioni si svolgevano con sconcertante calma, asettiche; non ci scambiavamo scherzi né battute, poche parole di saluto e di commiato. Ci sedevamo vicini: lo fronteggiavo sulla sedia, aprendo le braccia nella spiegazione. Lui restava timoroso, ma indeformabile. Non mi riusciva di stanarlo. Spesso il suo volto si bloccava di colpo e si ritrovava incapace di scrutare incognite e funzioni. Non tentava, come molti alunni esasperati, di evocare risposte casuali. In quei momenti, gli offrivo a bassa voce una serie di incoraggiamenti: non ti preoccupare, non avere fretta. Infine, arrivavo al vertice del mio messaggio di uomo e d’insegnante: non avere paura. Non avere paura. Spesso non mi serviva altro perché il monumento del suo sorriso riaprisse al pubblico: in quei momenti ero certo di essere già entrato con la mia mano, ritornata piccola all’improvviso, nel suo mondo incrinato di ragazzino.

Confermare i più piccoli nella tenerezza. E alcuni me la sbrigano come perversione. Se venissi scoperto forse dovrei subire un lunghissimo processo dove sbucherebbero i genitori del quindicenne che mi fu compagno per due anni, la sorella del mio piccolo Lorenzo, i professori che mi erano colleghi, i giovani nel parco, i vicini. Chiamerebbero perfino i miei stessi genitori: li vedo già alla sbarra, consapevoli per la prima volta di quale enorme rischio sia dare un contributo alla creazione. Addosso la punta di molte dita: in aula, in strada, sul giornale, addirittura in carcere, perché sarò dannato sicuramente dai detenuti in branco, punito dai loro corpi schiavi. Potrebbero convincermi o costringermi a castrarmi, come se il mio desiderio di abbracciare il mondo partisse dalle gambe. Qualcuno sarà pronto a illustrarmi nei dettagli le conseguenze del mio gesto, anche se il più giovane aveva già quattordici anni. Sarò tacciato di essere un manipolatore, un artefice di abissi, una strega che ha il rogo già in se stessa. In caso di processo, ho già pronta la mia difesa. Direi una cosa a tutti i genitori presenti in tribunale, ai miei, a quelli di Lorenzo, a tutti gli altri che ancora non conosco. Gli direi: non dovreste avere paura di me e della mia condotta. Famiglie, io vi amo.

Un labirinto scavato nel miele. L’avevo trovato alle giostre, metà inerpicato sulle aste dei cavalli arancioni, mentre terminava la questua dei gettoni colorati che i bambini avevano il coraggio di consegnargli solo se imbeccati dai genitori. Appena la giostra partiva, il ragazzino dei biglietti spariva. Tornava soltanto a fine giro, evocato dalle bestemmie del proprietario nel fondo di una cabina azzurra.
Al mio arrivo sedeva su una panchina, poi s’era buttato dietro il gabbiotto meccanico di comando a soffiare bolle di sapone. Ogni tanto puntava gli occhi sui piccolini urlanti dentro i sedili. Aveva appena il doppio degli anni dei bambini, o la metà dei miei. Mi bastava guardarlo in quella sera d’estate silenziosa, mentre tutta la vita che restava attorno a noi si riduceva a un richiamo del vento. Era sicuro e spontaneo, una fucilata d’innocenza in mezzo al petto. Appena poteva, scappava a contemplare un gruppetto di villeggianti in festa nel recinto di un albergo di lusso, impegnati nel ballo, agghindati con paccottiglie di pessimo gusto. Ai suoi occhi sarà parso un circolo di eletti: le stoffe, le pieghe che prendono i corpi quando li muovi come ti pare, il ribollire sgargiante dentro i bicchieri, le tovaglie che restano limpide e tese anche dopo le lotte dei cibi; o forse lo attirava il confine, l’infrazione del recinto.
Ne ho avvicinati parecchi di piccoli assorti, promettendo l’oggetto desiderato sempre ben visibile laggiù, in fondo agli occhi. Una bicicletta, uno skate, un gioco per la play: dovevo soltanto carpire che cosa volessero e offrirlo. Mi avvicinai, mi vide appena. Era un meticcio. La lingua sempre fuori, slacciata nel riso, era il suo oriente, ma nella pupilla c’era un occidente estremo, scuro, più antico che ostile. A volte mi occorre una sola parola, un suono complice, una frase di profeta. Così ho cominciato anche con Omar, invitandolo in quel giardino prezioso dove i grandi ballavano, senza sapere che sarei scivolato poche ore dopo giù per l’enigmatico dirupo del suo viso. I bambini sulle giostre continuavano a gridare.

Non c’è necessità, lo comprendo, di continuare a lungo le mie pagine, con descrizioni che ripugnerebbero i lettori più ortodossi. Abbonda in queste righe un sentimentalismo un po’ dolciastro, metafore stucchevoli e similitudini artefatte. Scusami se questo stile t’infastidisce. Non volevo sfogarmi con te buttandoti addosso i miei pesi. Come sorella di un mostro ne avrai già abbastanza. Ma non possiamo chiudere tutto in famiglia: la mia non è una storia privata.
Lo sai: ho amato studenti e apprendisti, promesse fiorenti del calcio, la prole dei miei colleghi, vicini di bagno, bulletti nell’angolo di una panchina, topi di biblioteca. Ma ho conosciuto anche piccoli adulti fin troppo severi e feroci con se stessi, figli di separazioni e ragazzi-padre esemplari.Ho amato anche chi non so etichettare: ragazzi tranquilli, senza complessi, che poi hanno scelto una via moralmente ortodossa. Uno di loro è diventato professore, mio collega stimato; altri sono confusi intellettuali che la provincia sfama con abbonamenti culturali fatti in serie. La maggior parte sono inglobati in uffici decorosi. Uno si è fatto frate, felice nonostante le rinunce. Uno si è travestito, e non credo voglia ritrovare l’inizio della sua cerniera.
Ma sono altri i destini che giustificano queste mie righe. Su alcuni non avrei scommesso molto. Saranno cinque o sei: si affiancano ogni giorno agli adolescenti lungo i viali, si allargano sulle panchine giocando a indovinare l’età dei più belli all’uscita del liceo. A volte è un limite, il non poter bastare a se stessi in questo modo; ma non posso che dirmi felice se i continuatori del mio vangelo di tenerezza circolano liberamente.
Finisce qui la mia confessione: se cercavi un crimine, trovi solo il criminale, senza certezza del reato commesso. La cosa più importante non è scoprire chi compie un delitto, ma la possibilità che questo accada. So che saresti l’unica in grado di darmi, in uguale misura, spiegazione e assoluzione.
Forse passerà molto tempo prima che torni a scrivere, ma succederà di nuovo, te lo prometto.
Un abbraccio, nonostante tutto.


[Illustrazione di copertina a cura di Salvatore Giovanni Scognamiglio, in arte XGC]

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