Foucault nel deserto: e ora cosa facciamo?

di Il Mondo o Niente

Il deserto della critica, Renaud Garcia, Eleuthera, 2016

di Caterina Orsenigo

Ho passato un agosto di peregrinaggi francesi. Una mattina, in un paesino sperduto della Borgogna che si chiama Nevers sono stata a lungo intrattenuta da due amici parigini sulla pubblicazione per Gallimard, a febbraio 2018, del quarto volume dell’Histoire de la sexualité, primo in realtà dopo La volonté de savoir, dedicato all’impalcatura di regole e dottrine imbastita dal cristianesimo tra il II e IV secolo.
Più che del libro in sé, i miei due amici hanno parlato soprattutto dell’atmosfera di attesa che ha scandito l’autunno e l’inverno precedenti, un’attesa trepidante e smaniosa (e che a me ha ricordato, come fenomeno collettivo, quella che pervadeva gli adolescenti dei primi anni duemila all’alba delle nuove uscite della saga di Harry Potter, ma non gliel’ho detto).
Foucault resta, in certi ambienti, un guru inattaccabile.

Mi è tornato in mente, ed è riaffiorato durante il nostro discorso, un libro che ho letto recentemente, intitolato Il deserto della critica (edito da Eleuthera nel 2016) del filosofo francese Renaud Garcia.
Garcia rimette in discussione, non come detrattore ma come figlio consapevole, l’eredità di Foucault e in generale dei post-modernisti come Delueze, Derrida, Guattari, Butler (che fa l’errore di mettere in unico calderone) ponendo un’importante e semplice domanda a decenni di decostruzionismo: E quindi? La fede di una buona parte della sinistra intellettuale in quest’attitudine di scardinamento di ogni credenza, ogni convincimento, ogni fede, infine ogni slancio positivamente costruttivo, ha portato, secondo Garcia, a un forte inaridimento della capacità creativa di risposta al reale. Ma dopo aver necessariamente smontato ogni tassello, dopo aver voluto guardare dietro ogni quinta e oltre ogni cortina, che cosa facciamo? Come possiamo agire se non possiamo più credere a nulla, fuorché al non credere stesso? Una delle persone più importanti della mia vita mi diceva, ogni volta che avevo una certezza, magari anche più o meno giusta, “Ora faccio l’avvocato del diavolo…”. E cominciava a smontarla. Ma dei pilastri, dei postulati da cui partire, mi faceva però notare, ci vogliono – se no è tutto permesso.
Questi postulati poggiano sul mondo che vogliamo proporre.
Scrive Renaud Garcia: “Possiamo cogliere qui un difetto irrimediabile della critica decostruzionista dell’universalismo. Con la pretesa di smascherare nell’universalismo un progetto di dominio occidentale inteso a distruggere le identità particolari, il decostruzionismo si sbarazza al tempo stesso di ogni assunzione di universalità che renderebbe possibile federare queste stesse identità”.

Garcia, autore di matrice anarchica, non riesce a dare una risposta all’“E quindi?”, quesito forse troppo grande quando c’è tutto da ricostruire e un contesto troppo disgregato e spaesato cui far fronte. Se mettiamo da parte la pecca di essere un po’ generico, bisogna riconosceregli di aver suggerito però diversi spunti (forse troppi) molto interessanti.
Ne cito un paio, a esempio e giusto perché sono temi che mi stanno particolarmente a cuore, poi invito caldamente, nonostante le imperfezioni del testo, a leggere di questo deserto in cui ci troviamo immersi.

Il primo riguarda quello che lui chiama il “corpo ed essere-nel-mondo” e attacca Judith Butler e Paul Preciado, di cui avevo scritto qualche mese fa sul Mondo o Niente.
Dice: “Agli occhi di una certa frangia della critica sociale, il corpo non sembra dunque che una combinazione di frammenti disparati (‘corpo senza origini’ deleuziano), un effetto di materializzazioni del discorso (Butler), o una superficie di intervento tecnologico (corpo cyborg di Haraway o Preciado). Al polo opposto l’intento dovrebbe invece essere quello di recuperare il significato intimo del corpo vissuto interconnesso a un ambiente familiare in cui si trova a esercitare le proprie capacità. (…) Il corpo vissuto, il corpo ‘proprio’, è quindi il terreno, o il sito (…) dal quale si organizza il nostro campo di percezione e di azione”.
Garcia parla di intento perché oltre a decostruire e mettere in discussione, è necessario proporre una visione del mondo, una direzione. Se tutto è possibile dobbiamo a maggior ragione sapere che cosa vogliamo e che cosa non vogliamo. In particolare non vogliamo un corpo che sia mero oggetto (o peggio ancora superficie), da modificare in linea con il proprio ego, ma al contrario la base attraverso cui relazionarci col mondo. Dice infatti: “pensare l’essere umano non come una creatura incentrata sull’ego, ma come un essere pienamente sociale”.

Il secondo spunto riguarda invece il linguaggio: “Un linguaggio che aderisce a tal punto alla frammentazione del mondo di cui dovrebbe essere espressione, e che vi si lascia intrappolare, rimane una lingua fondamentalmente incapace di criticare questo stesso mondo in modo costruttivo. È il motivo per cui, nel contesto attuale, mi sembra politicamente più importante lottare per conservare le virtù di un linguaggio che possa dire la realtà nel modo più chiaro possibile, piuttosto che accelerare la sua decomposizione, con il pretesto che è già in germe, in ogni atto di abuso del linguaggio, il lampo di genio di un Artaud. (…) Si tratterà di resistere il più possibile al crollo della logica, che decomponendo il linguaggio ordinario lo rende pienamente aderente all’universo dello spettacolo, coltivando l’immediatezza, l’ubiquità e la confusione”.
Anche qui Garcia propone uno sguardo e una direzione, certo non in maniera molto concreta ma con una lucida consapevolezza di quali sono i postulati dai quale muoversi.

Ho toccato due questioni molto scollegate tra loro ma che fanno intensamente parte del discorso del Deserto della critica: il corpo e il linguaggio, due fondamentali che, lasciati al deserto, si trasformano trasformando noi stessi in deserto, se non prendiamo posizione e non scegliamo cosa farne.

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