E la chiamano estate

di Il Mondo o Niente

Non Siamo Mai Stati Moderni, Bruno Latour, Elèuthera, 1991

di Caterina Orsenigo

In questa piacevole e inquietante estate di San Martino, dove anche a Parigi o Francoforte si sta in maglietta, gli esuli pensieri vanno alla storia raccontata da Bruno Latour, autore di Non siamo mai stati moderni, nel suo nuovo libro Tracciare la rotta, uscito a settembre per Cortina.

Per capire la nostra storia, o meglio il nostro presente di disuguaglianze, deregulation, migrazioni e desiderio di rifuggire la globalizzazione per tornare sotto l’ala protettiva dello Stato, bisogna farsi ad un tempo remoto.

Tanto tempo fa la globalizzazione sembrava darsi come “mondializzazione-plurale”, in cui cioè “si moltiplicano i punti di vista”; la direzione che prese fu invece di una globalizzazione-univoca, che diffondeva un’unica visione, appannaggio di interessi ristretti; a questa si opponeva un locale sempre più schiacciato e quindi forse anche per questo reazionario.

Intanto, mentre questa globalizzazione si espandeva e attaccava tutte le cellule del nostro pianeta, puntando a una modernizzazione che la Terra non poteva sopportare (perché “non c’è Terra a sufficienza per contenere il suo ideale di progresso”), qualcuno si accorse che la suddetta terra – che a tutti era parsa come semplice sfondo, ambiente in cui agire – si sarebbe svegliata, avrebbe reagito, si sarebbe ribellata. Quel qualcuno lo urlò a gran voce, per un poco si diffuse l’eco, poi qualcun altro (le élite che si sperava investissero per salvare almeno i propri interessi) capì che era già troppo tardi, che la macchina andava troppo veloce e si sarebbe schiantata anche frenando. Dissero allora che non era vero niente. Che non c’era nessun motivo di spegnere l’aria condizionata e la luce, nessun disastro climatico all’orizzonte. Loro così si sarebbero godute quegli ultimi quarant’anni di vita che restavano – che restavano a loro e anche al mondo. Al naufragio non sarebbero stati presenti.

“Coloro che si nascondono dietro Trump hanno deciso di far sognare ancora qualche anno l’America ritardando l’impatto con il suolo, e trascinando così gli altri paesi nell’abisso – forse definitivamente”

In questo disastro, continua Latour, è facile non credere più a niente e nessuno, affiancarsi al qualunquismo a cinque stelle o al localismo fascista delle destre europee: i popoli sono stati “traditi a freddo da coloro che hanno abbandonato l’idea realizzare davvero la modernizzazione con tutti, perché hanno saputo, prima degli altri, che era una cosa impossibile”.

Mancando il terreno sotto i piedi, in questo terremoto di riferimenti geopolitici, da tempo si sente dire che il binomio destra-sinistra ha perso di significato – ma anche Globale-Locale ha perso di la linearità . Latour si chiede allora quale debba essere il nuovo asse – perché, in un modo o nell’altro, non si può non decidere da che parte stare. Da un lato pone quindi le “élite oscurantiste” che hanno capito negli ultimi decenni che “non dovevano più fare finta, nemmeno per sogno, di condividere la terra con il resto del mondo”. Solo con Trump però la questione climatica comincia a definire “l’orientamento della vita pubblica di un paese” – sotto forma in questo caso di negazionismo. Questo polo Latour lo chiama Fuori-suolo, come nella serie brasiliana 3% è chiamata “Offshore” la terra promessa destinata a una minuscola percentuale meritevole della popolazione. Anche lì, come nel disegno di Latour, a questo polo di salvati fa specchio l’amplissimo polo dei sommersi. Quest’ultimo dovrebbe allora prendere forma di nuovo attrattore politico, l’attrattore cosiddetto Terrestre: volto a difendere la Terra, a differenziare il rapporto con il suolo attraverso l’apertura e non la chiusura ormai tipica del Locale.

Il pensiero comune verso cui dirigersi, insomma, si può esprimere così: “La nuova universalità è sentire che il suolo sta venendo meno”, e questa deve essere l’urgenza da cui ripartire.

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