di Stefano Patrizio
Un grande paradosso nella musicologia è che se c’è un luogo nel mondo in cui alla Musica si da grande valore e rilevanza culturale e artistica è la Gran Bretagna, e l’Inghilterra in generale, una terra che però ha dato i natali a un ristrettissimo numero di compositori di grande rilevanza. Li hanno sempre importati (Georg/George Friedrich/Frideric Händel/Handel su tutti: il più illustre compositore inglese era tedesco).
Se però c’è una cosa che gli Inglesi sanno fare benissimo, alle volte in maniera mirabile, è scrivere le canzoni. Perché il meglio i vari Dowland, Cutting, Byrd, come anche di Britten (che pure ha scritto pagine di musica strumentale formidabile) lo danno quando scrivono per le voci, con le Ayres o le Opere che siano, ma purché facciano cantare qualcuno. È un innato e inimitabile gusto per la melodia cantabile semplice, diversa e lontana dallo stile belcantistico italiano che necessita di motori potenti e perizie tecniche per simulare la leggerezza. No no, gli Inglesi fanno cantare leggeri per davvero.
Non fanno eccezione alcuna anche i contemporanei esponenti della musica pop o pop-colta. David Bowie canta. Freddy Mercury canta. Pure i sinfonici e progressivi Pink Floyd, diciamocelo, il meglio lo danno quando si avvicinano alla forma-canzone. E se già Meddle dei grossi passi in avanti li fa, è con Wish you were here che diventano i veri Pink Floyd, quelli cioè che certamente sono psichedelici e progressive, ma anche fanno le canzoni. Anche Shine on you crazy diamond è molto più canzone. Perché i suoni si fanno più curati, le melodie più riconoscibili come tali, la rottura dello schema più intellegibile e, di conseguenza, efficace.
E diciamoci pure una cosa che non si può dire ma la diciamo lo stesso: con buona pace di Malcolm Arnold, Berkeley, Dodgson, Cardew, ma pure di Elgar e Vaughan-Williams, di grandi compositori inglesi, GRANDI GRANDI, di quelli che stanno sulle vette inarrivabili, quelli che sono dei totem inamovibili, pietre miliari e fondanti, in attività nell’ultimo secolo, solo due ce ne sono veramente: Benjamin Britten e Paul McCartney.
Ecco, adesso mi immagino il coro “eh si, ma ti stai dimenticando di XYZ”, mischiato con la schiera dei “ma che dici ZYX è sicuramente meglio” e varie variazioni sul tema laddove comunque gli XYZ o ZYX sono i gruppi/musicisti preferiti di ciascuno degli elementi del coro e della schiera.
Ma questa non è una questione di gusti. Personalmente amo i Rolling Stones, ho suonato Dodgson, considero fondamentale per la mia crescita come individuo David Bowie, venero i Mogwai e sostengo che il mio gruppo preferito, per lo meno dal 2001 ad oggi, siano i Radiohead. Eccetera. Ma non è questo il punto.
Il punto è che se esiste, e in taluni casi molto probabilmente esiste, un senso musicale comune ad un’area geografica in cui vivono, suonano e cantano delle persone (ed è già successo che esista, basti pensare ai Franco-Borgognoni, i Fiamminghi, la Camerata Fiorentina, i musicisti viennesi dell’800, la scuola di Parigi solo per citarne alcuni tra i più evidenti), allora per quanto riguarda la Gran Bretagna degli ultimi (quasi) 120 anni, coloro che hanno avuto la migliore capacità di esprimere questo senso comune sono stati Benjamin Britten e Paul McCartney. E se per Britten non vi è nessun bisogno di ulteriori approfondimenti, tanto concordi sono critici e storici sul suo conto, per quanto riguarda McCartney il sunto è: nessuno come Sir Paul raggiunge la sua naturalezza e facilità nell’espressione melodica, nella capacità di scrivere canzoni, nel padroneggiare la Forma della Canzone.
E no, non ci è riuscito John Lennon. Gli è riuscito quando aveva accanto Paul McCartney.
Questo ultimo disco, Egypt Station, pubblicato a settembre ne è l’ennesima prova. Sia quando i pezzi sono più riusciti (Happy with you, Hand in hand) sia quando lo sono meno (che tenerezza fa quando canta Fuh you? ma chi crede di essere, Keith Richards? ma torna a casa, nonno, che ti si fredda il te delle 5 [cit. Francesco Quatraro]) il carattere identificativo delle melodie è inequivocabile, il suono è inequivocabile, la Forma è inequivocabile: tutto torna, tutto si regge, tutto scorre. Perché è un disco di Paul McCartney. Perché sembra che non faccia nessuna fatica nello scrivere canzoni, ancora una volta, come sempre. Perché non ha bisogno di scrivere tutte le volte Blackbird o The long and winding road, gli basta saper continuare a scrivere le Lovely Rita (ricordato come “la canzone di quando una vigilessa ti fa la multa”), e lo sa ancora fare.
E quindi preghiamo che la divinità che lo ha investito di questo impareggiabile dono gli preservi la voglia di continuare a divertirsi a fare la Musica. Di continuare a “scrivere un’altra piscina”. Per favore. Grazie.