Carne bianca

di Il Mondo o Niente

di Riccardo Meozzi

Nitti l’ha morso. Non lo credeva capace di un gesto tanto vivo. Nitti l’ha morso e non si è staccato per una ventina di secondi. Lui ha urlato, e mentre nella gola il suo dolore prendeva forma in maniera scomposta e istintiva, non ha pensato a nulla: non a toglierselo di dosso; non a mantenere la calma; non a chiamare qualcuno che gli desse una mano. È rimasto a fissare Nitti e i suoi denti di vecchio bavoso e arteriosclerotico, e intanto urlava. Fatto strano, inoltre, è che nessuno l’ha sentito. Neanche Andrea, che pure stava facendo il bagno alla Santini nell’altra stanza, è venuto da lui. E così, sotto gli occhi senza fondo e spirito di Nitti, ha poco alla volta smesso di urlare fino a ridurre il proprio fiato a un soffio. Poi, mentre la stanza si riempiva di nuovo dello sciabordio dell’acqua nella vasca, Nitti ha mollato la presa e si è lasciato andare all’indietro, come un redivivo che, esaurito il proprio compito, non ha più ragioni per muoversi. Vedendolo così, inerme e con tracce di sapone ai lati del collo, gli è parso già morto, e non ha voluto dirgli nulla, nemmeno una delle frasi di circostanza che lì dentro gli infermieri sono soliti rivolgere a coloro che non hanno più niente degli uomini che erano un tempo. Non gli ha detto “Questo no, Signor Nitti, non si fa”, come si dice ai bambini, né, uscendo dalla stanza, ha bestemmiato lasciando dietro di sé una fila di “Stupidi vecchi, putridi imbecilli, è l’ora che la facciate finita. Che cazzo vivete a fare ancora”.
Non è che gli sia mancato il coraggio, è che non avrebbe avuto alcun senso. Nitti appartiene a un mondo senza immagini, senza affetti. Le sole emozioni che abitano i residenti della clinica sono terrore e violenza, e per nessuna delle due lui si sente di fargliene una colpa. Questo vale anche per Nitti, di solito mansueto e claudicante quando una volta al giorno viene messo in piedi dal fisioterapista e viene fatto deambulare. A vederlo adesso, con l’acqua che lo ricopre e lo sguardo immutato verso il soffitto, non sembra capace di un gesto tanto audace.
Lo perdona. Ma se l’indifferenza che sente dentro e l’assenza di dolore al braccio siano però vero perdono, lui non lo sa, e neanche Nitti, che quand’era un uomo forse non ha mai fatto del male ad anima viva. Ma non gli importa. Nitti vale per quel che è adesso, per il posto che occupa nella clinica. È i suoi orari, la lista delle medicine, il numero di telefono dei parenti a cui si deve fare riferimento in caso di importanti e improvvise questioni da risolvere – che nella clinica sono soltanto un repentino peggioramento delle condizioni o una morte giunta senza preavviso.
Si alza, va verso il campanello. Lo preme; l’operatore sanitario deve venire a dargli una mano ad asciugare Nitti e a metterlo sulla sedia a rotelle, a rivestirlo e a riportarlo in camera, dove verrà adagiato sul letto e resterà per mezz’ora in attesa del pranzo.
Quando il ragazzo arriva, l’operazione viene  eseguita in fretta e con precisione. Nessuno dei due dice molto all’infuori delle istruzioni necessarie alla coordinazione dei movimenti. Ma sulla soglia della porta, mentre si voltano per controllare che nella stanza da bagno non sia rimasto nulla, vede l’operatore sgranare gli occhi.
«Nitti ti ha morso?»
Lui fa finta di non aver capito, chiude la luce e fa per avviarsi.
«Ma è la prima volta che lo fa?» insiste l’altro. «Guarda che devi andare a controllare che non abbia malattie infettive, e in caso devi fare la profilassi».
«Non è nulla. Nitti è bravo».
«Ma la procedura la conosci. Fammi vedere».
Gli prende il braccio sinistro e scopre la carne.
«Ma come non è niente! Guarda qua, hai anche perso un po’ di sangue».
Mentre l’altro lo esamina lui volge lo sguardo altrove, concentrandosi sul bianco del corridoio e sul pavimento di formica tirato a lucido dai filippini che ogni mattina incontra nel parcheggio davanti alla clinica.
«Vai in guardiola, controlla la cartella di Nitti. Poi fatti vedere dal dottore e avvisa la famiglia. Ci penso io a portarlo in camera».
L’operatore gli lascia il braccio e si avvia spingendo la sedia a rotelle. Lui resta nel corridoio vuoto e, invaso da quell’indifferenza che ha chiamato perdono, ripensa alla carne di Nitti, grigiastra e compromessa dalla vecchiaia, stoppacciosa e ripugnante.
A casa, quella sera, sa che non prenderà sonno. Erano anni che non gli succedeva, ma non è preoccupato né teme le ore di veglia. Decide però di mettersi a letto comunque e di chiudere la porta – è la prima volta che lo fa, e sente che qualsiasi cosa sia con lui dovrà restare al suo fianco, dovrà anch’essa farsi carico dell’attesa.
Aspetta, e mano a mano che la notte si rimpolpa di buio ed è convinto che qualcosa arriverà, il morso di Nitti inizia a dolergli ancora, ma non come quella mattina: [r4] brucia di un fuoco interno, più profondo della ferita, nella carne sana risparmiata dai denti. Non ha il coraggio di guardarlo; rimanda il momento più che può sperando che quella fiamma si estingua, che sia transitoria come tutte le sensazioni legate a un trauma fugace. Ma non se ne va, e allora capisce che deve guardare la fonte del fastidio: non ha altro modo per scampare al tremore che avanza.
È una corona di diciannove segni: alcuni sono bianchi sfumati di rosa, lunghi e sottili – paiono sguinci di una lama -; altri sono corposi e grandi come nocciole; tre, invece, sono sporchi di sangue nero e raggrumato, ormai foriero di morte, che lui non ha avuto il coraggio di lavare via. Sono ordinati, disposti lungo un ovoidale, e gli pare interessante che un’intenzione fabbricata da un cervello malato si sia tramutata in un segno tangibile, in un qualcosa che brucia e non gli dà pace e lo agita come quando da bambino correva lontano da suo fratello, che lo raggiungeva e gli si metteva di fianco pelle contro pelle e non voleva separarsi da lui neanche se pregato. “Togliti – diceva lui – togliti o ti mordo”, e invece lo mordeva l’altro. Affondava i denti da latte nella sua carne, ma senza fargli male. E lui, che era il maggiore, simulava allora di fare lo stesso spaventandolo; suo fratello si metteva a urlare, scacciando il probabile dolore con l’eccitazione, e di solito finivano a terra avvinghiati in una finta lotta in cui agguantavano vicendevolmente le loro carni bianche e tenere, gonfie della gioventù che il prete, un paio d’anni dopo, avrebbe decantato parlando del fratello – il suo corpo pallido e perfetto, tondo e inalterato come quello dei putti della chiesetta dove sorbirono la messa e da dove si incamminarono poi verso il cimitero.
Quando distoglie gli occhi dalla ferita la notte è troppo in là perché possa di nuovo osservare il morso. Si mette seduto sul letto. La stanza è nera, le tenebre hanno smussato tutti gli spigoli e le asperità. Gli viene in mente che potrebbe andare verso la porta e aprirla, permettendo così al fantasma di uscire dalla stanza; sa però che non basterà, che è la sua carne a trattenerlo, che i fori del morso sono pozzi che contengono gli anni che ha sempre avuto cura di tenere nascosti di modo da non caderci dentro e annegare.
Resta immobile. Ascolta il fuoco che dal morso si diffonde per tutto il corpo. Ascolta la sua carne, la risonanza che proviene da un tempo che appartiene a un altro corpo, un corpo per sempre bianco e giovane.
Il morso è scomparso dopo un mese. Quei diciannove segni si sono ritirati, sono stati scalzati da nuova carne e altro sangue. Pensava di non rimpiangerli, pensava che dimenticare il fuoco e il dolore sarebbe stato bello e l’avrebbe pacificato con la realtà, ma quando i suoi occhi hanno constatato la sparizione della ferita ha capito che non sarebbe stato disposto a sopportare un altro vuoto, un altro buco nel suo orizzonte.
Ha rimandato. Si è detto che quel desiderio sarebbe svanito, che nessun uomo vuole rinnovare il dolore e che chi lo fa è malato e ha bisogno di aiuto. Se ne è convinto. Se l’è ripetuto soprattutto di notte, quando il sonno è tornato a coglierlo e ha iniziato a divorare il fantasma erodendone un tratto alla volta fino a renderlo soltanto un sottile afflato di nostalgia. E a quel punto, colto dal dolore dell’abbandono, ha deciso di cedere, ma soltanto una volta, una sola, dopodiché non sarebbe più successo e si sarebbe comportato come aveva fatto per tutti quegli anni, dimenticandosi della gioventù e dei corpi sani in mezzo a quelli dei vecchi, degli scompensati, di quelli che vivono soltanto per precipitare verso la morte.
Preleva Nitti dalla sua stanza. Lo fa nel silenzio della clinica, subito dopo pranzo. Lo porta nella stanza da bagno. Aspetta che la vasca si riempia e nel mentre lo osserva: il vecchio non sta né meglio né peggio del solito. Ha il volto rasato e il mento un poco reclinato verso l’alto; la pelle è quella di una gallina. Poi lo spoglia. Ha cura di guardarne le forme, le anche spigolose, le gambe e la pancia flaccide e prive di peli. Del sesso, grigiastro e inservibile, non pensa nulla; crede impossibile che possa essere entrato in altri corpi.
Lo immerge nella vasca. Nitti non ha reazioni se non un piccolo grugnito. Inizia a lavarlo partendo dai piedi e risalendo poco alla volta, fino al capo. Gli insapona i capelli bianchi e si ferma. Sa che Nitti non parlerà, che il suo cervello è una pozza, ma vorrebbe comunque sentirlo pronunciare qualche parola. Nulla.
Gli si accovaccia accanto. Arrotola la manica del braccio sinistro e porge la carne al vecchio. Attende i suoi denti cavi e stanchi, i segni che ne verranno, i piccoli coaguli di sangue grandi come nocciole, la trasformazione adoperata da quella carne grigia non ancora marcia ma in grado di restituirgli la carne bianca del fratello. Carne già polvere, già dimenticata, eppure sempre viva.


Autore: Riccardo Meozzi. È nato a Città di Castello, in Umbria, nel 1994. Vive fra Bologna e la città natale. Ha pubblicato racconti su Verde Rivista, Crapula Club, Pastrengo rivista e agenzia letteraria, Narrandom, Tre Racconti, Malgrado le Mosche, Spazi Inclusi, In fuga dalla bocciofila, Grado Zero. Ha una rubrica narrativa intitolata “Tutte le mie vite” su Il loggione letterario. Nel 2019 il vincitore del Premio Letterario dell’Unione Europea Giovanni Dozzini ha voluto un suo racconto nell’antologia “A casa nostra, lontano da casa”, pubblicata da Aguaplano libri. È stato ospite dell’edizione 2019 di CaLibro Festival e del podcast Daimon di Violetta Bellocchio.

[Immagine di copertina di Francesca Gori]

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