Sul malessere collettivo. Un discorso in tre parti su Mark Fisher. 2/3

di Salvatore Cherchi
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La libertà negativa e le volontà collettive

La mia generazione ha dovuto prender coscienza del fatto che la propria posizione sociale, raccontata come un diritto inalienabile che si coltiva tramite impegno, dedizione e talento, è in realtà un privilegio fragile e in decadenza, che si regge sullo sfruttamento di risorse umane e ambientali ormai in aperta contraddizione con le istanze egualitarie e ambientaliste che, legittimamente, vengono rivendicate sia da chi non ha mai avuto accesso a questo privilegio, sia da chi se ne vede oggi tagliato fuori, sia da chi, possedendolo, è cosciente della sua insostenibilità.

La mia generazione, per venire a patti con la crisi attuale, ha accettato l’idea per cui continuare a collezionare titoli di studio e lavori precari permetterà, un giorno, di emanciparsi da un eterno, instabile, atomizzato e schizofrenico presente, in cui tutte le grandi battaglie sono state combattute, tutte la grandi rivoluzioni compiute, tutta la grande cultura realizzata, e ciò che ci rimane sono i cocci di un passato glorificato e i flash di un futuro che sembra rimandare la sua venuta, perché le urgenze del presente sono così pressanti che il tempo di pianificarlo, il futuro, non l’ha più nessuno.


Abissi miseri

Nel nostro orizzonte culturale le utopie sono state sostituite dalle distopie. Incapaci di immaginare un domani diverso, raccontiamo la fine del presente attraverso la caduta dell’Impero per mano di cataclismi naturali o tecnocrazie totalitarie.

In questo scenario, l’interrogativo di fondo che anima l’opera di Mark Fisher riemerge di continuo: perché se le condizioni di vita oggi possono raggiungere abissi miseri e insostenibili, continuano a essere professate come le uniche fattibili?

Si tratta di una constatazione banale. Oggi, quello che per semplicità di linguaggio definiamo capitalismo, sembra essersi imposto più come una fede che come un modello societario o economico. Anche se, fa notare Fisher, più che di un credo, si tratta del suo simulacro. Un’ideologia che nel professarsi post-ideologica, pretende di spogliare il mondo da qualsiasi struttura simbolica che regola (e dunque limita) l’azione degli individui, ma di fatto non fa altro che sostituirla con una propria: quella del mercato, che si traduce nella possibilità di rendere naturale ciò che naturale non è.

In questo scenario, in cui vige l’urgenza di produrre, definirsi ed emanciparsi attraverso processi individuali, si gioca di reazione per rivendicare la propria condizione.

Le cicliche mareggiate polemiche da cui siamo travolti non sembrano rivendicare la necessità di risolvere un problema storico o collettivo, ma al più di esprime il trasversale disagio nei confronti di un presente retto, per ridirlo ancora con Piketty, da una “disuguaglianza giusta”, perché raccontata attraverso la “favola meritocratica”.

Le proteste, i dibattiti, gli scontri, sembrano parlare più della condizione di chi li mette in atto piuttosto che degli obbiettivi cui si indirizzano, perché si esprimono attraverso forme di protesta speculari alla libertà negativa da cui prendono forma: sfoghi che trovano giustificazione in cornici simboliche divisive (da una parte i buoni, dall’altra i cattivi), che ogni individuo utilizza per definire sé stesso. Sebbene, spogliate di ogni sovrastruttura, sembrino rivendicare un’unica, e legittima, volontà collettiva: accedere a quel benessere identitario, sociale, ed economico che, contrariamente a quanto professato, non sembra essere materialmente disponibile per tutti.


Stiamo male insieme

Benché se ne sia parlato in lungo e in largo, il pensiero di Mark Fisher continua dunque a mantenere il suo valore politico ed esistenziale, perché esprime quel disagio che interessa la nostra sfera personale tutte le volte che siamo chiamati a confrontarci con un mercato del lavoro che ci spinge a sviluppare una mentalità competitiva; tutte le volte che siamo chiamati a interfacciarci con le strutture burocratiche che si annidano ovunque, e agiscono come apparati di controllo e macchine del desiderio; tutte le volte che siamo afflitti da ansia, stress e depressione, e le curiamo come problemi individuali, disfunzioni temporanee, senza rapportarle a storture sistemiche, politiche lavorative precarie, rapporti sociali atomizzati e solidarietà negativa (se sto male io, allora devi stare male anche tu).

Tutte le volte che dobbiamo (ri)adattare il nostro orizzonte culturale, lavorativo e affettivo all’evolversi delle tecnologie, le quali, tramite processi di gamification, condivisione e partecipazione diretta, aggirano i limiti di una politica debole, in perenne ritardo, e incapace di comprendere i mutamenti del presente per indirizzarli verso l’interesse democratico della collettività. Una politica priva di memoria.


Iperstizioni e memorie acide

Fisher pone spesso in relazione tutto ciò al tema della memoria, diagnosticando alla cultura contemporanea una forma di “amnesia anterograda”, disturbo che le impedisce di prendere atto del presente per proiettarsi verso il futuro, e dunque la spinge a rifugiarsi nella sicurezza malinconica del passato.

Eppure proprio lì, tra le macerie di ciò che è stato, è possibile scorgere gli spettri di quel passato che non si è mai rassegnato all’idea di non essere diventato futuro, e continua ad aggirarsi ossessivamente, come uno spettro, tra i cimiteri delle possibilità scartate.

Aggrapparsi a questi spettri, evocarli, dargli una seconda possibilità, significa opporsi alle logiche schizofreniche e anterograde del tardo-capitalismo. Equivale a ribadire che in passato un’alternativa c’è stata, e se non è stata scelta è per questioni politiche, non naturali.

Occorre dunque far emergere lo spettro di quell’altro mondo politico, libero di godere del bene comune e non di produrre merci e profitto in favore del singolo.

L’operazione di “riscrittura” della storia non deve però essere intesa come un atto nostalgico da ex-sessantottini, ma come l’applicazione concreta del concetto landiano di iperstizione, ovvero la retroazione del futuro (il nostro presente) sul passato, così da trascendere l’anacronismo e la melanconia in cui parte dell’attuale cultura e politica di sinistra si è rintanata.

Una sorta di viaggio nel tempo, per alterare le logiche di causa-effetto della storia e costruire un universo parallelo, un’ucronia acida che richiama la fantascienza di Philip K. Dick de La svastica sul sole (1962), in cui le istanze invocate dalle piazze tra gli anni Sessanta e Settanta non vengono accolte dal neoliberismo, ma dalla sinistra, dandole quindi la possibilità di riprendersi l’egemonia sul presente, ma soprattutto sul futuro.


Il pervasivo impero

Si possono cogliere alcuni punti di contatto tra il pensiero di Fisher e lo gnosticismo dickiano, caratterizzato questo da una sovrainterpretazione paranoica della realtà, per cui ogni cosa con cui abbiamo esperienza nel mondo reale potrebbe essere il segno di una realtà superiore, e lo scrittore si pone come una sorta di esegeta in grado di interpretare i segni per svelare la “matrice” (come anche per Land, il filosofo esegeta delle iperstizioni).

In questo senso, la visione del capitale in Fisher è simile alla visione dell’Impero idealizzata da Dick nella trilogia di Valis (1981-1982): un’entità il cui pervasivo potere si estende in ogni ambito della vita degli individui, in maniera totalizzante, tale per cui risulta impossibile sfuggirgli o essere immuni alle sue pratiche, e anche combatterlo significa venire assorbiti dalle sue istanze.

Come fa notare lo studioso Raffaele Alberto Ventura nel saggio La guerra di tutti (minimum fax, 2019), il linguaggio delle controculture e delle avanguardie emerse tra gli anni Sessanta e Settanta, è oggi parte integrante del mainstream. Le pratiche dei situazionisti, attraverso cui lo spazio urbano veniva ridefinito da situazioni ludiche e artistiche, o la correlata psicogeografia, che si interessava del rapporto tra spazio urbano e azione degli individui, sono state istituzionalizzate o tramutate in strumenti pubblicitari. Si pensi al Guerrilla Marketing o ai Flash Mob.

Allo stesso modo, per Fisher il capitale ti fa credere che tutto ciò che serve per contestarlo è comprare il prodotto giusto, lasciando a questo il compito di agire al posto tu. È un’idea che rielabora da Hobsbawm e Baudrillard e dal concetto di interpassività di Žižek: nel momento in cui ciò che è immateriale, che possiede una carica ideologica, viene convertito in merce, si crea il suo simulacro, che l’individuo “acquista” per far suo l’ideale.

In questo senso, il vuoto lasciato dalle grandi narrazioni, le quali agivano come ordinatori sociali, identificando un passato condiviso attraverso cui interpretare il presente per orientarsi verso il futuro, nell’epoca post-ideologica viene riempito da un’unica grande narrazione, quella che identifica la merce (in senso lato) quale strumento “reale” per il raggiungimento della propria individualità.

Ma cosa succede quando la crisi dell’individuo porta a una sovrainterpretazione dei simulacri e dunque lo spinge verso la necessità aderire a un’ideale che giustifichi la sua incapacità di trovare la propria libertà in un mondo materiale?


[Prima parte: La libertà del benessere e della crescita]

[Terza parte: Lo strano e il perturbante nella libertà contemporanea]

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