Un uomo spregevole

di Il Mondo o Niente

di Michele Galardini

Un uomo spregevole, abietto, percorso da quella gioia maligna nel vedere gli altri cadere che solo un narcisismo ben allenato può fornire in quantità così copiosa. Un fiero avversario del progresso, custode ingrigito di un’ideologia che non appartiene al suo tempo i cui occhi inespressivi sono buchi nel cervello dove la luce entra e, incapace di uscirne, subito impazzisce. Si rabbrividisce a stargli accanto quando, impassibile, sminuisce una persona a lui invisa –    sono poche quelle che resistono nel volergli bene –    con insinuazioni personali, il più delle volte esagerate o mistificanti. Ma il terrore vero è vederlo ridere: quando le due file di denti perfettamente piatti si aprono, uno stargate conduce falangi di demoni nel nostro mondo con, in testa, i vessilli riportanti una torre eretta con due cupole alla base, una croce stretta da una mano grondante sangue e  una stesa di tezze mozzate che circondano un gatto su un trono.
Sono obbligato a salutare quest’uomo ogni mattina, uscendo di casa, alla stessa ora in cui lui accompagna la figlia a scuola e io salgo in macchina per accompagnare Pietro nello stesso istituto. Un saluto brevissimo, la mano destra alzata con il gomito a novanta gradi, le dita unite, tranne il pollice che si dissocia, puntando da un’altra parte; un “salve” accompagnato dal sorriso involontario con cui si salutano gli agenti di polizia municipale dopo aver pagato una multa.
Sembra sincero quando mi augura buona giornata una volta scaricata la figlia davanti alla scalinata d’ingresso ma potrebbe sembrare altrettanto naturale nell’ordinare un gin tonic. Questi sono gli unici due momenti in cui lo vedo di persona, da quando è entrato in politica e ha deciso di trasferirsi nella villetta accanto alla casa dove ho scelto di vivere, dopo esserci cresciuto. Ho amici che lo seguono sui social e mi tengono aggiornati sulle sparate giornaliere: una volta a favore della famiglia contro gli omosessuali, un’altra a favore degli italiani contro tutti gli altri e un’altra ancora a favore della nostra città contro il comune confinante. Ultimamente, mi dicono, sta spingendo molto sugli sbarchi dei migranti, auspicando dei bombardamenti a tappeto per fermarli, raccogliendo una quantità notevole di insulti ma anche un buon numero di sostenitori.
Lo evito come un lebbroso. Ho addirittura proposto a mia moglie di trasferirci in un quartiere più verde, ma a lei non va di allontanarsi dal lavoro e non vuole che Pietro perda la possibilità di passare i pomeriggi con la nonna, che abita nella casa davanti alla nostra, e con i suoi amici vicini. Fra loro c’è anche Marta, la figlia di quell’uomo spregevole: una bambina bionda, bellissima, con cui Pietro passa pomeriggi interminabili a giocare in giardino. L’altro giorno, con la sicurezza tipica dei bambini, mi ha chiesto se possiamo comprare una casa più grande dove stare tutti assieme, io, lui, la mamma, la nonna, Marta e i suoi genitori.
Eppure sono passate non più di quattro ore da quando sua moglie lo ha trovato, riverso in fondo alle scale, con la bocca e gli occhi spalancati e una pozza di sangue a fargli da cuscino. Quattro ore da quell’urlo che ha squarciato la notte. Tre ore e mezzo dall’arrivo dell’ambulanza e dell’automedica, tre ore e quaranta dall’assembramento dei primi vicini in pigiama e pantofole. Solo tre ore dall’arrivo della polizia, due ore e quarantacinque dalla domanda di Pietro – è successo qualcosa al babbo di Marta? (chissà come, aveva capito che si trattava di lui). Sono passate due ore circa da quando la barella, con sopra una lunga crisalide nera, si è fatta largo tra i curiosi prima di sparire dentro l’ambulanza, lasciando una bava che, dagli occhi della moglie, segnava il viaggio di un corpo verso l’ultima destinazione. Seduto alla finestra del mezzanino osservo; anche la nonna ha raggiunto il giardino dei vicini e ora abbraccia Pietro che ha capito tutto ma ha deciso di rimandare il momento della piena consapevolezza. Non ora, non qui, non davanti a Marta. C’è un via vai incessante di persone nella casa accanto, nessuno resta più di dieci minuti: Don Fabio, il parroco della chiesa di Santissima Trinità, esce con le braccia conserte, non si capacita, nonostante tutto non vuole credere che sia così facile andarsene; Luigi, che abita poche case più in là, si mette le mani nei pochi capelli rimasti scendendo i tre gradini che lo riportano sulla strada; una donna, che forse ho già visto altre volte da queste parti, esce velocemente da un taxi ed entra correndo nella casa mentre il tassista la rincorre quasi sulla soglia per chiedere di essere pagato. Vedo mia moglie che si avvicina timidamente all’ingresso, ancora in vestaglia — si è vergognata di vestirsi, non vuole mai sembrare superficiale — saluta timidamente qualcuno dentro la casa e poi, ancor più dimessa, con le braccia strette al petto e la testa bassa, entra. Arrivano due auto blu, tutti vogliono sapere, tutti vogliono vedere. Sento il telefono squillare, non rispondo. Dopo un minuto arriva un messaggio – dimmi che è vero, ti prego seguito da quattro punti di sospensione e cinque emoticons di festoni e poi un altro messaggio – sto seguendo il telegiornale, perché non rispondi??? e ancora – alla fine i miei accidenti gli sono arrivati tutti insieme e poi un altro e un altro ancora. Dieci, venti chiamate a cui non rispondo, di numeri che nemmeno conosco. In basso, a pochi metri dal mio punto di osservazione, la processione continua. State piangendo un demone oppure, ancora peggio, lo state attaccando come fosse ancora vivo. Una notte lunga e un mattino doloroso alle porte ma non per me che, di quella processione, benedico ogni secondo. – Perché non scendi? chiede mia moglie, appoggiandomi una mano sulla schiena, pur conoscendo benissimo la risposta. Sa che non parteciperei mai alla celebrazione della scomparsa di quell’uomo e che lui parteciperebbe alla mia solo per sfoggiare la maschera lucida della compassione. Io invece sto seduto, guardo il tempo scorrere sui fili d’erba del giardino sui quali alza, lentamente, la scure di un sole gelido, appena nato. Che gli altri cambino, la morte non mi impietosisce. Quello scomparso oggi è un uomo spregevole, un’infezione, il sintomo più chiaro di un’epidemia.
Qualcosa si muove dietro di me, inciampa, si rialza. Mi giro di scatto, vedo Pietro indietreggiare e due occhi spuntare da un caschetto biondo sotto il suo braccio. Sembra appena uscito da un’esperienza tremenda. Fa due passi verso destra, uscendo dall’ombra proiettata dal mio corpo e, con voce tremante, mi dice – C’era qualcuno qui.

–   Qui dove?

–   Qui, dove sei te

–   Nel mezzanino?

–   Io e Marta lo abbiamo visto — dice quasi singhiozzando — volevo chiederti se poteva restare a dormire da noi stanotte ma ora ha paura

–   Ma non c’è nessuno qui…ci sono stato sempre e solo io, te lo assicuro

–   Era un’ombra…con due luci al posto degli occhi…aveva le corna e le ali e…

–   E cosa faceva?

–   Niente…ci guardava mentre giocavamo in giardino

–   E avete avuto paura?

Fanno cenno di sì all’unisono con la testa poi Pietro, al quale Marta avrebbe sempre riconosciuto il coraggio di quella spedizione, rinfrancato, mi chiede nuovamente se può restare a dormire da noi.

–   Papà ha detto che va bene — dice lei esortandomi a scegliere la risposta giusta.

–   E anche la mamma! — aggiunge Pietro.

Il mio sorriso basta come risposta, non faccio a tempo a proferire verbo che li vedo salire gli scalini come stambecchi e sparire. Mi volto nuovamente verso il giardino; in mezzo al prato, illuminato dalla luce della veranda, c’è quell’uomo spregevole, sta parlando con sua moglie. All’improvviso qualcosa lo distrae; si ferma, come chiamato da qualcuno; ruota la testa verso destra, il busto la segue in ritardo, finché non incontra il mio sguardo. Vedo due file di denti perfettamente piatti aprirsi; la mano destra alzarsi, il gomito piegato a novanta gradi, le dita unite, tranne il pollice.

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Michele Galardini nasce nella tranquilla Pistoia nel 1985. Si diploma con 65 e un calcio, si laurea alla triennale del CMT di Pisa e, nel 2011, alla magistrale del Dams di Bologna. Del cinema si innamora nemmeno diciottenne, prendendo una cotta prima per Alfred Hitchcock e poi per il noir. Con la musica convive fino dai primi passi al ritmo dei Led Zeppelin, dei Queen e degli AC/DC. Col tempo si trasforma in un fanatico dei Simpson: per gli esperti è un caso patologico.

Lettura di “Un uomo spregevole” da parte di Leonardo Paoli, attore di Teatro Immersivo Firenze

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