Stigma

di Il Mondo o Niente

di Matteo Candeliere

Prima di lasciare l’appartamento deve capire se è necessario davvero.
Non c’è un amico a cui chiedere, ad esempio, o una vecchia zia di cui può approfittare? Cammina su e giù per il corridoio, scalzo per non fare rumore. Al piano di sotto vive una famiglia che è meglio non sappia della sua presenza. Si ferma davanti allo specchio dell’ingresso per l’ennesima volta. Una chioma di capelli ricci neri e densi come catrame gli avvolge la testa. Soffia all’insù per spostare un ciuffo che gli copre gli occhi, poi prende un paio di forbici dal tavolino e comincia a tagliare.
In un attimo il pavimento si riempie di ciocche: cadono leggere, sparpagliate in una diaspora disperata. Tancredi le raccoglie con paletta e scopino e le fa scivolare in un sacchetto di carta. Nello specchio cerca di riconoscere la persona di prima sotto quella testa rasata, ma ogni volta è come se fosse la prima volta.
«Al diavolo», sussurra. Poi prende un cappellino da un cassetto pieno di cappellini ed esce di casa.

Il pianerottolo è terra di nessuno: non esiste posto più pericoloso. Le scarpe in una mano e il sacchetto nell’altra, Tancredi scende le scale nel terrore che una porta si apra all’improvviso.
Fuori, si infila di nascosto le scarpe dietro un albero e va al fiume a buttare il sacchetto. Mentre cammina, la testa comincia a prudergli, ma tiene le mani salde nelle tasche del cappotto. Accelera soltanto quel tanto che basta a non destare sospetti e trascinando le gambe anchilosate fa tutto il lungofiume fino al centro medioevale.

La piazza, abbracciata dalla chiesa e dal palazzo del municipio, è pattugliata giorno e notte da un piccolo manipolo di poliziotti.
Mentre li osserva da dietro un olmo gigantesco, Tancredi si morde un labbro fino a farselo sanguinare. Tutto intorno, i suoi concittadini passeggiano tranquillamente: c’è chi si tiene per mano, chi rincorre una palla, chi porta un cane al guinzaglio. I poliziotti monitorano il flusso che dalle stradine si riversa nella piazza, ma lavorano distratti, chiacchierando tra di loro e chiedendo soltanto un documento ogni tanto. Si concentrano sugli uomini soli, quelli che vanno di fretta e che hanno una luce speciale negli occhi.
Tancredi deglutisce, ma non ha più saliva: deve andare, adesso. Con una mano controlla che il portafoglio sia ancora al suo posto nella tasca di dietro dei pantaloni e con l’altra si gratta la sottile peluria che gli cresce tra la testa e il cappello.

Sulla strada verso la piazza fa il disinvolto: si sofferma sulle vetrine delle botteghe, si attarda a carezzare il muso di un cavallo a riposo. Avvicinandosi ai poliziotti, intona un motivetto e cerca di concentrarsi sugli affreschi che abbelliscono l’esterno della chiesa. I colori sono quasi del tutto sbiaditi, e con essi le intenzioni e i sogni del pittore. Secoli di sole e di pioggia hanno eroso la maggior parte del disegno: del poco che ne rimane, resistono tra i calcinacci soltanto il volto di una giovane – la Madonna, Maria Maddalena, Santa Lucia? – e delle palme scrostate dalle fronde alle radici. Non ricorda con precisione il periodo in cui l’affresco è stato dipinto, ma ha sentito che dev’essere per forza di cose antecedente all’Alto Medioevo, e questo lo si deduce dal fatto che…
«Ehi, ragazzino. Parlo con te».
«C-come?».
I poliziotti si guardano l’uno con l’altro, poi si voltano tutti e tre verso Tancredi, le mani già sui manganelli.
«Facci vedere il tuo documento».
Tancredi muove le mani fino alla tasca dei pantaloni ed estrae il portafoglio. Uno dei poliziotti – il più anziano dei tre – confronta la foto appiccicata sulla carta con il volto del ragazzo che gli si para di fronte.
«Togliti il berretto», gli dice.
«Con… con questo freddo, signore?».
Vinti dalla curiosità, i passanti rallentano nel tentativo di udire qualcosa. Due ragazze a braccetto commentano la scena coprendosi la bocca con una mano, un bambino chiede alla mamma di avvicinarsi. Cercano il prodigio, il morboso dietro l’ordinario. Qualcosa da raccontare.
«Togliti il berretto», ripete il poliziotto, a voce più alta adesso, come volesse farsi sentire dalla folla.
Tancredi se lo sfila. Per un attimo trattiene il respiro, ma poi sul volto dei militari vede comparire una smorfia di delusione anziché di rabbia. I capelli sono cresciuti soltanto di un dito.
«Mi raccomando», gli dicono restituendogli il documento ripiegato con cura. «In giro è pieno di gentaglia».
Tancredi si mette il portafoglio in tasca e il cappello in testa, e nonostante la paura lo implori di mettersi a correre, si incammina verso la chiesa soltanto a passo spedito. Vampate di calore gli inondano il petto ed il volto, respira profondamente ma non riesce a calmarsi.

La chiesa è silenziosa. Il tempo delle elemosine e dei segni di pace è finito.
Tancredi s’infila nel confessionale e si butta in ginocchio senza neppure segnarsi. La porticina sbatte in un tripudio di tendine di velluto svolazzanti.
«Quanta fretta», sussurra una voce attraverso la grata di legno. «Devi avere peccato molto».
«Padre, mi hanno fermato. Se solo, se solo… oh, Dio. Oh, Dio». Comincia a raccontare in fretta, si mangia le parole, mescola le paure, ma il prete lo interrompe: «Sst. Sta’ zitto. Non hai neanche detto la parola d’ordine. Dovrei ammazzarti, dovrei».
Tancredi si copre gli occhi con una mano e si mette a singhiozzare.
«Sei stato coraggioso a venire. Adesso ricomincia. Con calma».
Il ragazzo riprende il discorso soltanto a fatica, tirando lunghi respiri tra una frase e l’altra per non soffocare.
Quando ha finito, il prete sussurra qualcosa a bassa voce. Prega, forse. Poi gli chiede di togliersi il cappello. Il ragazzo obbedisce, e una massa di capelli ricci, finalmente liberi di espandersi e fluire, si allarga in ogni dove.
«Crescono in fretta», sospira il prete. «Una volta sarebbe stato un complimento. Le forbici sono sotto l’inginocchiatoio. Tagliali, dai. E cerca di non sporcare troppo in giro. Ti aspetto di sotto».

Si incontrano in sagrestia qualche minuto più tardi. Il prete butta il sacchetto con i ricci di Tancredi nel camino, ed insieme guardano il fuoco bruciare il peccato di cui saranno per sempre colpevoli.
«Tieni», gli dice il prete, e fa comparire un paio di forbici da uno straccio che usa per pulire in terra. «Annamaria Tobis. Via dei Mille, numero 10. Le sue ha dovuto buttarle via. Nascondile, mi raccomando. Se ti beccano con queste…» Tancredi fa di sì con la testa, ma già pensa a quel che lo aspetta fuori di lì. Le facce rosse dei poliziotti, gli sputi, il chiacchiericcio ed il fango. Una città perfetta soltanto per chi è stato fatto a sua immagine e somiglianza, una madre che decide quale figlio è degno di lodi e quale è invece difettoso, impuro, macchiato dallo stigma di una razza maledetta.

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Immagine di copertina di: Didi Gallese

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