No music on weekends

di Il Mondo o Niente

di Giovanni del Giudice

No music on weekends. Storia di parte della new wave, Gabriele Merlini, effequ 2020

È stato un tempo il mondo, giovane e forte, odorante di sangue fertile.
Fine anno (dicembre 2020): ascolti e letture compulsivi, è tempo di bilanci. La musica cui do fiducia ritrova quel sound a tratti grezzo (ma con slanci non poco eleganti), incredibilmente sintetico, distintivo di un’epoca che, per visitarla, devo giocare al gioco dei ricordi. Ecco come lo fa Merlini nel suo saggio pop No music on weekends (effequ, 2020).

La new wave. L’autore dissemina la sua opera di varie definizioni pensate o pescate in giro tra la vastissima letteratura sull’argomento, pagando il dovuto prezzo al rigore storiografico che comunque ci si aspetta da un saggio, pure se pop. Va da sé che nessuna definizione risulta esauriente. Tante bricioline di pane secco: se le mangiano i corvi di passaggio, e anche i passerotti, le lepri… se le mangiano tutti, insomma, e ci troviamo al punto di partenza. Di cosa parliamo (dunque) quando parliamo di new wave?


Il non genere per eccellenza su cui  No music on weekends si concentra interessa sostanzialmente gli anni che intercorrono tra il 1978 e il 1985, mica anni facili, quindi. Eppure a distanza di trent’anni un disco su tre che metto su, tra le nuove uscite, riporta a quell’idea di suono, a quella indefinita estetica che si andava costruendo dopo lo spartiacque del punk. Un non genere che nasce post per diventare immediatamente pre, quindi liminale, ma tanto eterogeneo e complesso da costituire un universo troppo ghiotto per gli appassionati di musica. Ed è così che ce lo presenta Merlini.

Il saggio poggia su una struttura topografica piuttosto rigorosa: un viaggio che si costruisce attraverso l’Italia (Bologna, Firenze, Milano + Roma, Pordenone), gli States, UK e poi di nuovo a casa – Firenze, Italia, Europa, Mondo – per ritrovare qualche outsider di peso che non aveva trovato spazio (chissà poi perché) nella trattazione. Si tratta del resto, come l’autore precisa nel sottotitolo all’opera, della storia di parte della new wave, gioco di parole facile quanto funzionale perché mette subito al sicuro da qualsiasi ipotetica critica e si sa: il popolo della musica ha sempre qualcosa da dire (spesso a sproposito). A questa geo localizzazione di massima si sovrappone il racconto vero e proprio che sfugge alla logica della recensione o del sapevatelo, ma che crea piuttosto una sorta di mandala di ricordi, invenzioni, ricostruzioni, letterature e soprattutto suoni che rincorrono altri suoni (pre… post…). Si tratta di un oggetto narrativo oramai ben identificato in cui i personaggi (reali, ombre) si avvicendano sulla via maestra del romanzo di formazione; perché in effetti è di fronte a questo che ci troviamo: un (ancora abbastanza) giovane Holden che ripercorre uno dei suoi viaggi più intensi, un viaggio in musica, e ce lo racconta con una penna più matura e una trentina d’anni di ascolti sulla groppa.

Merlini ci mette di fronte alla sua formazione musicale (culturale?) ricostruendo l’arco temporale che va dai suoi natali ai suoi sette anni, e lo fa ricorrendo a espedienti narrativi che sarebbero interessantissimi per un romanzo, quindi ottimi per un saggio. Espedienti che di volta in volta lo rendono protagonista di un momento storico in cui, a leggere la sua biografia, ancora non camminava, o parlava senza le erre. Ciò nonostante dimostra di aver frequentato quel periodo musicale con grande capacità di approfondimento, tipica di chi ha dedicato e dedica all’ascolto della musica la stessa tenace dedizione che altri hanno dedicato allo studio metodico, che so, dei classici della letteratura contemporanea.

Ciascuna delle tre parti che vanno a costruire il saggio ripercorre lo stesso schema: un inquadramento storico generale, pochi dettagli: morti illustri sotto i cieli di piombo dei tardi settanta e tanta rabbia giovane (chissà come mai mi viene in mente Malick…). Poi viene uno schizzo paesaggistico, dettagli minimali in primo piano: la Bologna della Harpo’s music (poi Italian records), delle radio libere, della violenza nelle strade; la Firenze che strizza l’occhio alla moda, al teatro sperimentale, contemporanea come non lo è mai stata (né mai lo sarà più); la Milano furba, attiva, ma forse meno vicina all’Europa di quanto la canterà Lucio Dalla qualche anno dopo; l’immensa Roma fatta di contrasti, la nebbiosa Pordenone del Great Complotto. Quindi all’estero: la New York della no wave, delle T shirt I love NY; l’Inghilterra così prolifica, innumerevoli ramificazioni, piove sempre. Infine, nell’ultima parte, l’autore ci riporta nella sua Firenze: gli anni della scuola, i concerti, le feste, i gruppi (quelli belli).

Su questo schema Merlini – attraverso invenzioni e personaggi che gli consentono di raccontare, raccontarsi, intervistare, ascoltare e commentare – mette in parole il suo flusso di conoscenze, di ascolti stratificati, di memorie condivise che rendono corale la narrazione (questo libro piacerà ai quarantenni, cinquantenni, sessantenni… richiesta una certa passione per la musica, astenersi ascoltatori di sottofondi lounge).

Certo, è una storia di parte, ma la domanda più naturale al lettore medio corrispondente alla descrizione fatta poco fa resta la solita: perché questa parte e non un’altra? Per dare una mia risposta mi sono inventato un giochino: ho immaginato l’autore (che nel giochino diventa un infaticabile musicista da piccolo club, che suona le cover con la sua band granitica e ci si paga pure un cospicuo affitto) alle prese con una scaletta per una seratina in un grazioso live bar del centro di Firenze. Ecco, la scaletta di Merlini è davvero ben dosata: giustamente ricercata (la scelta del titolo conferma), a tratti preziosa, non dimentica dei classiconi (che quelli non possono certo mancare mai) ma capace di evocare le assenze in modo quasi naturale, di dare quel senso di estraneità che qualcuno s’è guadagnato. Ma soprattutto questa scaletta è suonata davvero bene: in maniera personale, impeccabile non nel senso di fallibilità (gli scazzi ci stanno sempre in un live, anzi la cosa divertente è proprio beccarli), ma piuttosto nel senso rock and roll che si potrebbe attribuire al termine, cioè senza sboronate. La vecchia lezione impara l’arte e mettila da parte, che in musica qualcuno s’azzarda a internazionalizzare in the more is less, è sapientemente padroneggiata in No music on weekends, insomma.

Il risultato è dunque un saggio godibilissimo. Interessante per gli addetti ai lavori e i veri appassionati (scoprirete di sicuro qualcuno che vi era sfuggito), ottimo per i neofiti, perfetto per chi in generale ama leggere libri scritti bene, di qualsiasi roba parlino. Merlini è un saltatempo che si precipita in una non storia di un non genere (praticamente un salto nel vuoto) e lo fa con una scrittura illuminata e illuminante al tempo stesso (“Cazzo, ha scritto esattamente quello che pensavo io!”, eh sì, succede sempre così). Libro coraggioso, dunque, e davvero ben riuscito. Un ottimo aiuto per aspiranti recensori musicali alla ricerca di idee di stile. Senz’altro una delle (poche) cose buone di questo annus horribilis. A proposito: come finiva la canzone?
Il nostro mondo è adesso, debole e vecchio, puzza il sangue versato infetto.

[Immagine di copertina: David Byrne]

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