Lorenzo Lo Bue Spettatore

di Ferruccio Mazzanti

Seduti su una panchina di un locale in un parco vicini allo stadio con un cestino di plastica avvolto in carta da forno e ripieno di fritto misto, indifferenti al film di Hitchcock che viene proiettato ad una quindicina di metri di distanza e osservato da un pubblico sonnacchioso, Lo Bue sta raccontando che:
– Ero a Boston già da qualche mese e anche se avevo cambiato quartiere, mi ero affezionato ad un bar vicino al porto, per cui prendevo la metro e, diciamocelo, il nuovo quartiere era un posto per fichetti, aveva tutti i suoi comfort, non voglio dire di no, mi ci trovavo bene, certo, però preferivo andare in quel vecchio e puzzolente locale giù al porto. Era pieno di cose stupide alle pareti, come quadretti che raffiguravano personaggi a me sconosciuti e mi vergognavo anche un po’ a chiedere chi fossero, sai gli americani possono essere molto classisti su certe cose e poi, diciamocelo, la clientela era composta da ispanici e neri ed io non me la sentivo di contrariarli con domande su quelle vecchie foto dentro a quelle orribili cornici da soap opera. C’erano anche animali impagliati o di plastica, un gufo, un salmone gigantesco, dei neon che funzionavano a intermittenza, i bicchieri sbagliati, i portatovaglioli vuoti, chiazze di non so cosa su una moquette verde bile e non sto neanche a raccontarti i bagni, con tutta la carta igienica per terra quando c’era e gli orinatoi in un angolo buio che ti veniva da guardarti le spalle mentre pisciavi, ma a me piaceva quel posto, mi rilassavo ad andare lì, mi sentivo a casa.
– Ma quanto ci sei stato a Boston?
– Poco più di due anni.
– Scusa, ma non sei appena tornato?
– Sì, ma dopo sono andato a Chicago e dopo ancora a Cisco.
– Com’è Cisco?
– È bella.
– Sì, ma bella come?
– Che ti devo dire. Diciamo che ha tutto un suo microclima culturale.
– No, ma la città, coi suoi saliscendi. È vero che ci sono i saliscendi?
– Altro che saliscendi, ma fammi finire la storia.
– Ah, sì scusa, vai avanti.
– Il bar era a tre o quattro fermate della metro, così non mi ci voleva molto ad andare lì. Tra l’altro nella metro ci incontravo la peggio gente. Mi piaceva la cosa. C’erano homeless che dormivano sotto le sedute, ti giuro non sai quanti ne ho visti. E anche degli attori che facevano dei minuscoli flash mob per raccattare due spicci e rumeni con i violini e non vedenti con delle cazzatine di gomma da venderti e tossici che stavano proprio male e che prima di rivolgerti la parola ti chiedevano se eri della D.E.A, ma nessuno era della polizia a quell’ora, all’ora in cui io andavo a quel bar giù al porto con la metropolitana. A volte salivano sul vagone queste gang di ragazzini, questi ragazzini neri vestiti come in un video di 50 Cents.
– E come era, scusa se te lo chiedo, com’è Chicago? Dicono che sia una città pericolosissima.
– Sì, beh, dipende un po’ dai quartieri, ci sono alcuni quartieri che…
– Ho conosciuto un tipo che è stato a Chicago che mi ha raccontato che ci sono appunto le baby gang che sparano per le strade.
– È che lì è abbastanza facile comprare le armi, per cui… Tra l’altro adesso che mi ci fai pensare avrei anche una storia da raccontarti che mi è capitata poco prima di partire…
– Da Chicago?
– No, dagli Stati Uniti, in quel momento ero tornato a Boston.
– Cioè, fammi capire: hai fatto Boston, Chicago, Cisco, Boston?
– No, sono stato anche a New York e poi a L.A.
– Che ficata, ma come è L.A.?
– Strana, è molto strana, è praticamente un’autostrada.
– E New York è proprio come nei film?
– No, non proprio, e poi ero a nord, un po’ sopra Brooklyn, al confine col Queens, lì mi ci sono fermato per quasi un anno.
– Ma non è pericoloso?
– Sì, è un po’ pericoloso, ma basta stare attenti. Oddio, mi hanno rapinato un po’ ovunque, a volte anche sotto casa, ma fammi finire di raccontarti questa storia.
– Ah sì, scusa, scusami.
– Allora dicevo: una sera ero praticamente da solo sul vagone mentre andavo al mio bar preferito al porto, se non si considera un tipo che stava giocando col suo cellulare un po’ lontano da me, saranno stati sei o sette posti più un là, forse dieci, e appunto sale questa baby gang di neri che ascoltavano canzoni di cui francamente capivo solo la parola broccoli. Bla bla bla broccoli e poi ancora bla bla bla e broccoli. Faccio finta di niente e sto sulle mie e per un bel po’ anche loro. Saranno stati in sette. Parlavano con quella flemma tutta rallentata e biascicata del ghetto. Avranno avuto massimo quindici anni. Poi, quando mancava ormai una sola fermata, mi hanno notato e hanno cominciato ad indicarmi e a ridere e ad indicarmi ancora e a ridere di nuovo e poi uno ha detto qualcosa agli altri che non ho capito bene e si sono messi tutti a ridere insieme e poi sono venuti da me e hanno cominciato a chiedermi qualcosa col loro slang incomprensibile. Non li capivo, era una cosa terribile. Speravo che mancasse poco alla fermata. C’era puzzo di sudore. Gli ho chiesto: potete parlare in inglese per favore? E loro si sono fatti tutti seri e sono rimasti immobili ad osservarmi. Avevano gli occhi arrossati.
– Ma scusa, quanto è grande Boston?
– Non è grandissima, sarà sui seicentocinquantamila abitanti.
– Ok. È che io me la immagino dai telefilm che ho visto e sembra un bel casino da quelle parti.
– Abbastanza, ma ho visto di peggio.
– Tipo?
– L.A. è senza dubbio molto peggio, anche alcune zone di New York sono proprio un disastro.
– Ma non Manhattan!
– No, Manhattan è tranquilla.
– E il Bronx?
– È più un mito cinematografico che altro.
– E Harlem?
– Va bene, dopo ti spiego tutti i quartieri di New York, ma prima fammi finire la storia.
– Sì, hai ragione, scusami.
– Allora questi tipi sono tutti intorno a me, in silenzio, che mi guardano. Quando arriviamo alla fermata io mi alzo e vado verso l’uscita. Esco. Loro rimangono immobili dentro al vagone ad osservarmi. Mi incammino lentamente, controllando che le porte della metro si richiudano e dopo poco lo fanno, si richiudono ed io comincio a sentirmi più al sicuro, l’ho scampata. Prendo le scale mobili per salire su, sulla strada. Comincio a pensare che sia andato tutto bene, ma quando arrivo in cima mi ritrovo tutti quei ragazzi, non so come avessero fatto, tutti e sette con le braccia incrociate lì ad attendermi, muti, statuari, giovani. Comincio a correre in una direzione a caso e quelli non si muovono, continuano ad osservarmi, mi lasciano scappare, capisci? Come se fossero dei semplici spettatori, ma quando giro un angolo me li ritrovo sempre davanti, immobili, con le braccia incrociate, una cosa da uscir fuori di testa, io ero completamente sudato fradicio, completamente terrorizzato. Continuavo a correre da una parte all’altra e loro sempre lì, sempre lì, sempre lì davanti a me ad attendermi dietro ad un angolo, neanche il fiatone avevano. E poi alla fine raggiungo di corsa, non so bene come, proprio il locale dove volevo andare all’inizio, il mio preferito là giù, là giù al porto. Penso che se sono dentro non potranno farmi niente, così senza pensarci due volte varco la soglia. E invece me li ritrovo tutti lì, ma stavolta non sono più in sette, ma sono una cinquantina. Immobili, giovani, neri, con le braccia incrociate, mi osservano, muti. Qualsiasi cosa io faccia – penso con rassegnazione – sono comunque morto, tanto vale farsi una birra. Allora mi metto al bancone e arriva il barista che mi chiede come sto. Chiacchieravo sempre con lui quando andavo lì, anche perché non è che avessi tutte queste amicizie. Gli rispondo che sono un po’ preoccupato per la mia vita, lui guarda alle mie spalle e mi fa ci credo. Poi mi dà una birra ghiacciata che è come l’ultimo desiderio di un condannato a morte. La televisione sulla parete trasmetteva una pubblicità. Gli chiedo, al barista intendo, gli chiedo, mentre quell’esercito rimane dietro di me muto e con le braccia incrociate ad osservarmi, se può farmi vedere qualche sport, su un canale a caso, uno tra i tanti, inutili sport che l’uomo si è inventato pur di far qualcosa, gli dico che sarebbe meglio una competizione agonistica fatta con cose obsolete, non funzionali, per losers. Lui mi dice canale 72 e con un sorriso malinconico me lo mette. Ed effettivamente c’è questa gara di scuolabus, rottami cadenti, schifosi, che si prendono a pugni. Ed io sapendo che quella sera sarei stato derubato, violentato e poi ucciso mi sono messo a fare il tifo per un pilota a caso, un certo Gonchi, un pilota pazzo, delirante, che ha sacrificato la sua vita alle competizioni su scuolabus abbandonati, sostenendo che dietro ci sia una filosofia che noi dobbiamo ancora comprendere e che cambierà il mondo. Gonchi in quel momento era dodicesimo e digrignava i denti sbattendo il suo goffo mezzo contro gli altri enormi e accartocciati pulmini. Poi, come se qualcosa fosse scattato in lui, cominciò a sorpassare gli avversari come un povero, delirante idiota. E ad ogni sorpasso io esultavo e quando arrivò a diventare il primo gridai con tutta la forza che avevo in corpo, sollevando le braccia verso l’alto, voltandomi verso i cinquanta e più alle mie spalle e quello che vidi fu assurdo: anche loro stavano esultando. E cominciammo ad abbracciarci, a baciarci e ad offrirci vicendevolmente da bere. È così che a Boston ho cominciato a farmi degli amici. Grazie a quelle inutili, stupide, clownesche gare per scuolabus.

[Immagine di copertina: Last Stop, Steve Bennett]

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