Nessun pensiero alle nuvole

di Luca Giommoni

Arianna voleva solo vedere cosa ci fosse dietro quella porta. Ma non ci riuscì, né all’ospedale né alla sala parrocchiale. Però sua mamma da quel giorno non la vide più, né quando rientrava a casa, né davanti ai film in bianco e nero del lunedì sera. La rivide una settimana dopo, nella terza colonna da destra. Se ne stava in mezzo a Guido Neri ed Elsa Casucci. Sorrideva, ma con un sorriso che Arianna non aveva mai visto fino a quel giorno, fino a quella foto.
− La mamma è lì dietro? – chiese Arianna e suo padre iniziò a farneticare qualcosa a proposito della tristezza, dell’anima e del cielo.
− Speriamo che sia lì: quelle che scelgono di andarsene come lei non è mica detto…− intervenne la nonna alla parola “cielo”. Poi continuò sottovoce, come se, oltre alle lacrime, cercasse di omettere anche le parole.
Se la nonna diceva che neanche il cielo riusciva a ospitare la mamma, figuriamoci quel rettangolo sul muro. Una mamma non poteva certo entrare in uno spazio così piccolo. Suo padre, la nonna, le stavano mentendo. Sua mamma doveva essere per forza da qualche altra parte, e Arianna decise che l’avrebbe trovata.
La cercò per tutto il paese. Nella lavanderia a gettoni, dove sua mamma rimaneva per un intero ciclo di lavaggio a fissare il bucato girare. Al mercato del martedì, dove sua mamma sembrava sorridere solo quando si nascondeva dietro qualche vestito appeso a una stampella. Nel piccolo stagno, un centinaio di metri dentro al boschetto al di là della statale, dove sua mamma le diceva che lì potevano piangere, o ridere, indisturbate. Provò anche a chiedere di lei ai compaesani, perfino alla signora Irma affacciata alla finestra una decina di metri sopra di lei, ma l’unica cosa che ottenne furono tanti commossi Mi dispiace.
Forse era una congiura, pensava Arianna. Non solo suo padre e sua nonna le stavano nascondendo dove fosse sua mamma, ma anche tutto il resto del paese. C’erano mura quadrate, facciate con ghigni ferrati, scheletri massicci di palazzi in costruzione, piazzali asfaltati con panchine verniciate di verde, ringhiere abbandonate alla ruggine e marciapiedi abbandonati dagli uomini, che le impedivano di scoprire la verità.
Arianna iniziò a guardare indispettita il cielo e a scrollare la testa ogni volta che suo padre le chiedeva di accompagnarlo al cimitero. E, anche se già percepiva la solitudine della sua scelta, e la paura che ne derivava, Arianna decise lo stesso di fuggire.

Tra tutti i bambini della classe, proprio lui, non se lo sarebbe aspettato. Non era brutto, ma pensava fosse uno del gruppetto di Zeno, uno di quelli con le scarpe con la linguetta sempre in fuori. Ma in un qualche modo ne era incuriosita da quando, una volta, in chiesa, proprio due panche davanti la sua, l’aveva visto annoiarsi, anche lui. In quel momento, l’aveva sentito vicino, più di tutte le preghiere che venivano recitate.
Era appena suonato l’intervallo e Arianna era rimasta al suo banco a far precipitare briciole su fogli, tutti attaccati con il nastro adesivo, dove, con la mano libera, via via scriveva o colorava qualcosa. Lui le si avvicinò discreto e, pregando di non impuntarsi, le chiese: − È una mappa?
Arianna fece segno di sì con la testa, senza distrarsi dai fogli e dall’addentare il suo panino.
− Per un tesoro?
− No.
− E per cosa?
− Per scappare da qui.
− Da scuola?
− No – disse seccata. – Da casa, dal paese. Da tutto.
Arianna sollevò lo sguardo e vide la faccia contrita del bambino, che le ricordò quella di una marmotta. Provò una grande tenerezza e dispiacere per essere stata così dura. Per farsi perdonare, prima gli indicò un trapezio tutto colorato d’arancione, poi un quadrato blu con un triangolo rosso tutto sbavato come tetto, infine due linee parallele e ondulate che sembravano un fiume senza acqua, e gli disse: − Questa è la scuola. Questa è casa mia e questa è la strada della ferramenta, quella che porta fuori dal paese.
Il bambino, rincuorato da quelle delucidazioni inaspettate, ritenne giusto chiedere: − Perché stai scappando?
− Non sto scappando.
− Prima hai detto che volevi scappare.
− Ho detto che la mappa era per scappare. Io non scappo, vado a cercare. Ma prima devo riuscire a uscire dal paese, per questo mi serve una mappa.
− Cosa cerchi?
− Quello che manca qui.
− E dov’è quello che manca qui?
− Non lo so, ma non qui e di sicuro non in cielo, quindi sarà da qualche parte là fuori.
− Allora qui manca un pezzo?
− Esatto – disse Arianna con gli occhi pieni di luce. Guardò il bambino, ancora in piedi, lì accanto, e qualcosa dentro di lei si strappò, ma senza farle male.
− Vuoi venire? − gli chiese senza sapere fino in fondo perché.
− Dove?
− A cercare quel pezzo.
Il bambino ci pensò un attimo. Prima fu felice di essere coinvolto, poi ebbe paura di cosa avrebbe comportato una risposta positiva, ma bastò una sola occhiata ai riccioli di Arianna, che gli sembravano tante stelle filanti di un unico color castagno, tutte attaccate su una testa che poteva essere un carnevale morbido, per fargli rispondere di sì.
− Allora troviamoci alle nove davanti al parcheggio del supermercato – disse Arianna risoluta, provando a non dare a vedere la sua gioia nell’aver trovato un compagno per quell’avventura, e gli indicò subito il supermercato sulla mappa. − Hai una macchina? – aggiunse poi.
− No, perché tu sì? – chiese sbalordito, il bambino.
− Sì, elettrica. Una jeep – rispose fiera, Arianna. – Allora ti passo a prendere io. Alle nove a casa tua, va bene?
− Ok.
− Portati uno zaino con bere e mangiare: sarà un viaggio che non sappiamo quanto durerà. Io porterò diversi avanzi ma non basteranno per tutti e due.
− Posso portare della cioccolata?
− Sì, la cioccolata è buona.
Il bambino sorrise come sorrideva la mattina della vigilia di Natale.
− A stasera allora − e Arianna gli diede un bacio, più simile a un grazie, sulla guancia.

Per non fare rumore, nella stradina davanti casa, Arianna preferì non usare i pedali ma la discrezione della batteria 12 volt. Previdentemente, prima di uscire da casa, aveva fatto incetta di tutte le pile in tutti i cassetti di tutte le stanze, nel caso il telecomando si fosse scaricato. La batteria sarebbe durata almeno fino a fuori paese. Teoricamente poteva durare di più, però era notte e le luci dovevano restare accese. Ma Arianna aveva già deciso che una volta uscita dal paese sarebbe andata per un po’ a pedali e se si fosse stancata ci sarebbe stato sempre il suo compagno d’avventura a darle il cambio.
Davanti alla vecchia bottega di Gino e Sergio non c’era nessuno e non vide neanche la signora Irma affacciata alla finestra a fumare una delle sue sigarette di nascosto dal marito. Evitò di passare di fronte al bar: lì qualcuno ci sarebbe stato per forza, ma grazie alla mappa aveva già programmato un percorso alternativo.
Per distrarsi dai rapidi battiti del suo cuore, provò a calcolare la distanza tra lei e la casa del bambino, non in tempo ma in cose che le piacevano. Ad Arianna piacevano i coni gelato in cialda, i lapis, i porta rullini in plastica nera, le mietitrebbiatrici, i gilet di suo nonno e le cartoline. Ogni calcolo cessò appena, davanti al vialetto d’ingresso della casa, vide il bambino, immobile, ad aspettarla.
Arianna alzò il pollice dal telecomando e la jeep elettrica si fermò proprio davanti al bambino. Scese e, come prima cosa, avrebbe voluto dirgli “Ma lo sai che da casa tua a casa mia sono più o meno milletrecento coni gelato?”, invece disse: − Lo zaino?
− Non l’ho preso.
− Perché?
− Non vengo.
Arianna abbassò gli occhi. Il vialetto di porfido sembrava non poterla aiutare. Poi, un po’ con paura, alzò lo sguardo su di lui.
− Perché?
Adesso era il bambino ad avere gli occhi bassi.
− La mamma… mi mancherebbe – fece timido.
Arianna non disse niente, alzò gli occhi al cielo e sospirò come aveva visto fare tante volte a sua mamma.
− Cosa guardi? − chiese il bambino, dispiaciuto.
− Le nuvole. Chissà cosa ne penseranno…
− Di cosa?
− Che non vieni.
Il bambino rivolse la testa in alto. Vide la notte avvolgere tutto e le nuvole di un colore che non sarebbe riuscito a definire, ma che, se proprio avesse dovuto farlo, avrebbe detto color gesso cancellato alla lavagna.
− Le nuvole mica pensano – disse poi.
− Devo andare – fece Arianna, dirigendosi verso la jeep senza aspettare un secondo di più, per cambiare prospettiva a lacrime che faticava a trattenere. Ma il bambino, con delicatezza, la afferrò per un braccio.
− Ti ho portato una barretta di cioccolata però.
− Grazie – disse Arianna con un filo di voce, prendendo la barretta dalle mani del bambino.
− Dove andrai?
Arianna spezzò la barretta di cioccolata, avvicinò le due porzioni e gliele mise sotto agli occhi.
− Lo vedi, qui dentro? – disse indicando la linea di rottura tra le due parti.
− No.
− Ecco, io vado qui – e prima che il bambino potesse dire qualcosa lei era già all’incrocio della strada, quello che faceva tutte le mattine in autobus, che a destra portava alla scuola, a sinistra alla chiesa e, dritto, alla ferramenta. Lei andò dritto.
Appoggiò il telecomando sul sedile vuoto e iniziò a pedalare più forte possibile. Il suono delle ruote sull’asfalto poteva sembrare anche un rumore bianco in grado di coprire la disillusione, poteva essere tutto, tranne quello di un giocattolo per bambini. Se Arianna avesse calcolato le distanze, avrebbe scoperto che dalla lavanderia a gettoni all’alimentari erano trentadue gilet di suo nonno, centoventisette porta rullini dal tabacchino alla vecchia edicola chiusa, che per uscire dal paese, da casa sua, erano novecentocinquantasei lapis, da casa del bambino, invece, solo seicentocinque cartoline, ma Arianna già rideva, unendo pezzi di mondo, uno dopo l’altro.

[Immagine di copertina: Alicia Savage, Head in the Clouds]

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