Matteo Garrone

di Alexander Onoff

Matteo Garrone, a cura di Christian Uva, Marsilio Editore, 2020

Il peso non conta. Nel cinema di Matteo Garrone l’immagine emerge come unità minima e autosufficiente del lavoro del regista; non c’è abbondanza, nemmeno nei film più barocchi come Il racconto dei racconti (2015) e Pinocchio (2019); c’è, invece, tanta perdita di materiale, come per le sculture realizzate dal protagonista di Primo amore (2004), orafo ossessionato proprio dal peso, per lui sintomo di perfezione.

Il volume monografico curato da Christian Uva per la collana di Marsilio “Elementi – Sequenze d’autore”, curata da Paolo Bertetto, si intitola semplicemente Matteo Garrone anch’esso riduzione di un processo collettivo e stratificato all’unità minima: l’autore. Due introduzioni e otto saggi, uno per ogni film (restano fuori solo Terra di mezzo e Estate romana), equamente divisi tra autrici e autori, per fare il punto al 2020 sulla carriera di uno dei registi più importanti del cinema italiano contemporaneo, uno dei pochi ad aver subìto il processo di transustanziazione da carne ad aggettivo, “garroniano”, al pari di Nanni Moretti e Paolo Sorrentino — nel 2015 i tre hanno, infatti, posato assieme per una foto, divenuta virale, prima di presentare i rispettivi film a Cannes.

Non si pensi che questa polifonia editoriale tolga identità a un lavoro monografico; al contrario, essa permette di calarsi in profondità nelle singole schede seguendo la linea tracciata dall’autrice o dall’autore, avendo sempre come punto di riferimento, per l’emersione, l’introduzione di Christian Uva dove il curatore delinea, con le giuste parole, alcune efficaci prospettive di analisi. Il concetto di “terre di mezzo”che, oltre a dare il titolo al suo primo lungometraggio del 1996, si impone come presupposto estetico, etico, esistenziale per capire il racconto garroniano, universo in cui vediamo (con)fondondersi vero e falso, bellezza e bruttezza, virtù e abiezione, vita e morte; o quello di happening, «sorta di reazione chimica sollecitata dall’autore» che opera in un «orizzonte in cui realtà e fantasia trascolorano l’una nell’altra senza soluzione di continuità». Pensate a Dogman (2018), un western celato sotto la ruvida crosta della cronaca che si scrolla piano piano di dosso la realtà diventando, infine, metafisico; oppurea Estate romana (2000) dove la capitale, nell’anno del giubileo, «magrittianamente senza volto» diventa teatro delle peregrinazioni di personaggi spaesati, interpretati da attori del glorioso teatro sperimentale degli anni ’70 (Nico Garrone, il padre di Matteo, da critico teatrale ha vissuto e raccontato quel periodo in prima persona).Ma questo carattere di indefinitezza è sempre mitigato da un approccio materico al mezzo in fase di riprese, come se la formazione pittorica del regista, oltre a rendersi evidente nella scelta di luci, colori e direttori della fotografia, avesse come naturale approdo cinematografico l’utilizzo della camera a mano, come se fosse importante per Garrone essere a contatto con la scena per poterla dipingere. Per descrivere questa duplice tensione dello sguardo, tattile e metafisica, Uva utilizza l’efficace immagine del sub «calato in apena a contatto con le creature strane e misteriose che vivono e si agitano nei fondali di una massa liquida in cui rischia di rimanere avviluppato […] e dalla quale, appunto, deve tirarsi fuori per riprendere fiato, per guardare tutto da lontano, come da un altro pianeta».

Partendo da qui si può procedere in ordine cronologico oppure affrontare subito i film a noi più cari, scegliendo per esempio la lettura che Dana Renga fa di Gomorra affrontando la parabola dell’unica protagonista femminile, Maria; oppure le ipotesi di lettura dei personaggi di Pinocchio avanzate da Luca Mazzei; o, ancora, l’estetica del grottesco che permea L’imbalsamatore (ma non solo), descritta da Enrico Carocci. In un cinema e in una critica che spesso ragionano di immagini nei termini di “cosa” rappresentano, e non di “come” lo fanno, Garrone leviga la realtà fino ad arrivare al punto in cui non conta più essere o meno engagé, oppure distinguere tra documentario e finzione perché ogni cosa ha perso il suo peso e, proprio come nel finale di Primo amore, abbandona il corpo per farsi idea.

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