La regina degli scacchi

di Giovanna Daddi

(Ancora. Sì, ancora)

Questa recensione doveva uscire alcuni mesi fa, poi, per vari motivi, non l’ho scritta. Nel frattempo di questa serie ne hanno parlato praticamente tutti, come era prevedibile. E quindi il dubbio: la scrivo o no? Ho deciso per il sì, e ho deciso di scriverla esattamente come l’avrei scritta mesi fa, subito dopo averla vista. Perché è una serie ben fatta per più di un motivo. Perché è tratta da un libro e mi ha fatto venire voglia di leggerlo. E allora ben venga se ne parlano tutti.
Proprio da questo vale la pena iniziare: perché tutti parlano de “La regina degli scacchi”? Anche chi, come me, di scacchi sa poco o nulla e non ha mai imparato a giocarci. Il motivo credo sia perché gli scacchi hanno lo stesso fascino di tutto ciò che non comprendiamo fino in fondo ma in cui ravvediamo, giustamente, il genio puro.
Il fantasma di Bobby Fischer è sempre presente quando si parla di scacchi, non c’è un film, una storia, in cui l’ombra lontana di questo genio folle non aleggi. Anche in questa serie è così, solo declinato al femminile. E del resto è comprensibile: come fai a parlare di scacchi senza pensare a lui? Come l’immaginario del pallone difficilmente si stacca da Maradona.

Ed è qui che “La regina degli scacchi” ha un ulteriore punto di forza: la follia, oppure la diversità dalla norma, la distanza da ciò che per tutti gli altri è usuale, non è caricata. Il tema in sé rischia di essere di una banalità sconfortante, visto quanto è trita l’associazione genio/follia. Eppure chi ha creato la serie è riuscito nell’intento di mostrare la fragilità di Beth semplicemente scontata, nuda e cruda, dagli psicofarmaci somministrati nell’orfanotrofio alla dipendenza dall’alcol, così com’è, senza sguardo compiaciuto, ma solo con la forza visiva, quasi pittorica, di un enorme barattolo di pasticche verdi, attraenti come caramelle e luccicanti come sassolini di fiume, che la protagonista abbraccia in una tragicomica rappresentazione della sua precoce e feroce addiction.
La regia non calca la mano, disegna con tratti sottili e molto eleganti la figurina dai capelli rossi che si prende una rivincita epocale sulla vita, in forza unicamente del suo talento strampalato, scoperto in uno sgabuzzino di seminterrato grazie a un custode tenero e inquietante. Un incontro provvidenziale tra due persone sole e complementari, che non si dimenticheranno mai. Anche il rapporto con la madre adottiva Alma, la cui insospettabile abilità pianistica è un colpo di genio dello sceneggiatore, è basato su una psicologia talmente semplice che, anziché banale, appare perfetta: perché chiunque la comprende al volo, istintivamente. L’arguzia di Beth con gli esseri umani che la circondano deriva forse dalla sua abitudine mentale agli scacchi: ragionare come su una scacchiera. Per questo deraglia come un treno solo quando le pedine non vanno al giusto posto.

Questa trama, questi elementi narrativi, sono i più rischiosi: stanno lì, sul baratro della banalità mostruosa. E invece di banalità non c’è traccia qui, grazie ai dettagli e a un’ironia potente, un disincanto misto a tenerezza (è un mix difficile da creare, unire due poli opposti senza creare un mostro) che sprizza in ogni scena letteralmente dai pori di Beth e dei suoi comprimari: ogni volta ti aspetti che accada “quella cosa lì” e invece la trama vira altrove, salvandosi in corner. Anche i momenti di crisi [in cui arriva sempre qualcuno a cercare di salvarla senza riuscirci, tranne Jolene, lei ci riuscirà] sono lo specchio di ciò che accade a Beth con il gioco. Che è l’unica cosa che conta per lei, talmente tanto da vedere nell’avversario russo solo e semplicemente un avversario di scacchi, non un “russo”: ed è proprio in Unione Sovietica che Beth si sente, forse per la prima volta, “a casa sua”, nella piazza di Mosca dove tutti giocano a scacchi e la avvolgono in un finale allegorico (da non confondere con un finale stucchevole, perché in effetti può sembrarlo), che si chiude rassicurante, per la prima volta, sulla sua vittoria inaspettata e liberatoria.
I demoni, i traumi, gli eccessi costanti in realtà restano sullo sfondo, uno sfondo dipinto alla perfezione, ricreando l’atmosfera in particolari degni di nota che mi portano ad applaudire alla scenografia, più ancora che ai dialoghi, sempre ad ogni modo ben sostenuti, con un ritmo accordato sulle mosse, le aperture, le strategie. Tutto prodromico alla partita successiva, tutto è come una preparazione a quello che avviene nell’unica realtà davvero tangibile per Beth, la scacchiera, e quindi la sua mente. Ma con un tubino all’ultima moda e un paio di Chanel, sempre in ogni caso.

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