Le chiavi di Los Terceros

di Il Mondo o Niente

di Manuela Montanaro


Era una borsa di pelle. Una vecchia borsa bombata con i bordi crepati e la puzza di polvere e di cose chiuse. Si era ficcata in fondo a un cassetto ed era rimasta mummificata là per anni. Quando Lea la prese le si sbriciolò in mano e una neve piccola di coriandoli coriacei le impolverò i piedi. La borsa era vecchia e nuda ora. Lea spiegò le curve e provò ad aprirla, il gancio non scorreva più, sembrava pietrificato dagli anni, nero e duro era diventato tenacissimo. Lea si graffiò il pollice ma alla fine il gancio fece un tac e cedette.

Il fazzoletto usato arricciato dal muco secco e dalle lacrime di quella sera a Tolosa, una Brooklyn verde rigida e spezzata, una penna smembrata, uno scontrino della Upim di via Sparano, la scatoletta dei Fresh & Clean essiccati, un elastico fucsia, uno sterrato di briciole di cracker, una Club. Tre chiavi tenute insieme da un’etichetta arancione. Una scritta con la penna blu: “Los Terceros A”.

Lea sorrise alle chiavi.

Lea tieni, le dai tu alla mamma? Ma che facciamo stavolta in aereo? No, non te li mangi tutti tu i wafer. L’hai preso il walkman?

Vinz allora aveva dieci anni e i capelli arrotolati in turbini color cioccolato sulla testa.

Lea se lo ricordava ancora mentre girava la cassetta dal lato b e si infilava le cuffie come una coroncina della prima comunione.

La casa di Los Terceros era stata una costruzione di legno verniciata di verde davanti al mare di La Coruña. Lea e Sandro l’avevano affittata per anni a ottobre, quando in città rimanevano solo pochi turisti lenti e il molo si ingialliva di tramonti silenziosi e freschi. E per anni c’erano andati pure Chiara e Mario e Vinz, che là una volta si era messo una stella marina sulla faccia e aveva fatto quasi crepare Lea mentre dormiva. Lei gli aveva detto che era pazzo e che da grande lo avrebbero rinchiuso in un manicomio, ma Vinz non era uno che potevi rinchiudere. Lea lo guardava in quelle settimane nella casa di La Coruña e pensava che fosse un bambino simpatico e geniale e pensava a quanto i suoi genitori fossero fortunati e che famiglia felice fosse. Lei che era approdata nella vita di Mario senza intenzione e da là non voleva andarsene e là non voleva restare.

Il giorno in cui trovò le chiavi della casa verde pensò che quel posto non esistesse più, che al porto di La Coruña ora ci fossero baretti pieni di ragazzi al terzo gin tonic e negozi Saint Bath sempre vuoti.

Pronto?

Vinz?

Ciao Lea, come stai?

Ma bene, tu?

Sono di corsa, posso richiamarti? È successo qualcosa?

No no, anzi. Scusami, volevo solo salutarti.

Va bene, se non è un problema ti chiamo più tardi.

Non preoccuparti, mi basta sapere che stai bene.

Sto bene.

Bene Vinz, bene. A presto allora.

Lea?

Le chiavi, Lea avrebbe voluto dirgli delle chiavi, ricordi le chiavi che mi hai dato quel giorno prima di andare via da La Coruña per l’ultima volta, le chiavi io non le ho mai date a tua madre, le avevo dimenticate in borsa e ora sono qua e pensavo alla casa verde e pensavo a noi quattro che ti scompigliavamo i capelli e tu che ci dicevi che degli scemi come noi non se lo meritavano uno come De Andrè nella loro generazione, e pensavo che chissà dove stai e chissà se la casa verde è bruciata o l’hanno buttata giù.

Lea si ficcò le chiavi in tasca, guardò la borsa e pensò che fosse finita, che fosse morta pure quella sacca di pelle insieme a Chiara e che non c’era davvero più niente di quegli anni.

Finì la striscia di quella sera, arrotolando i ricci di Eva come un covo di serpenti. Eva le piaceva, era una donna grassa e potente che piangeva solo nei giorni di vento. Disegnare quel personaggio la faceva stare bene, era arrivata a odiare i fumetti fino a che non era arrivata lei.

Fece rotolare la matita sotto i denti, si tolse gli occhiali, si accese un sigaro.

Ehi, Vinz?

Ciao Lea, ti disturbo?

No, affatto.

Scusami per stamattina, non sono stato gentile.

È difficile che tu possa non essere gentile, ragazzo mio.

Come te la passi?

Come al solito, disegno, vivo. Tu dove sei?

A Marsiglia, restiamo due settimane, poi Arles.

Cammini ancora su quel dannato filo o sei passato di livello e adesso cammini nell’aria?

Non devi preoccuparti per me.

Ti pare una cosa possibile?

Il circo è un posto sicuro.

Sì, come una centrale nucleare.

Ma dai.

Vinz?

Sì?

Te la ricordi la casa verde?

Certo che me la ricordo.

Secondo te c’è ancora?

Non saprei.

Andiamoci. Andiamo a vedere se c’è ancora.

Lea pensò che era veramente impazzita. Ma che cosa le era venuto in mente? Quella era la casa delle vacanze con Chiara, e che senso aveva? Perché riportare Vinz a quel dolore? Quanto poteva mancargli ancora sua madre?

Andiamoci. Dopo la tappa di Arles ho qualche giorno libero. Ci pensi tu al volo?

Vinz.

Va bene ci penso io. Ti scrivo domani per le date precise.

Vinz.

Lea, prima o poi bisogna anche andare a vedere che fine hanno fatto le nostre cose.

Io non sono sicura che sia una buona idea.

Lo sai che ho smesso di avere dieci anni molto tempo fa?

Già. Vinz non aveva più dieci anni. Non lo vedeva dal Natale di tre anni prima e già allora le era sembrato dritto, composto, con un paio di occhi del colore della guerra, lucidissimi e fermi. Aveva sorriso un paio di volte ma le era parso di non averlo mai più visto ridere e alzare la bocca al cielo col diastema bellissimo che era solo suo, come faceva quando correva verso il mare e lei e Chiara lo inseguivano con le pistole ad acqua.

Arrivarono a La Coruña a metà dicembre in una mattina col cielo maculato di nuvole cotonose.

Arrivarono fino al molo a piedi. I baretti non c’erano e i ragazzi al terzo gin tonic erano tornati ai loro studentati e alle sigarette rollate in piccole stanze coi letti sempre disfatti, intrisi di mille odori di donne.

La casa verde stava là. Con gli spigoli scrostati e la salsedine che si era mangiata i cardini e il battente. 

La scritta di ceramica “Los Terceros” era sbiadita, annacquata dal sole e dai giorni sempre ammaccati dell’autunno in Galizia.

L’aria pizzicava di fresco e di sale soffiato dal mare, Vinz si tolse il panama di feltro e si grattò la testa. Lea tirò fuori le chiavi con l’etichetta arancione e poi guardò il ragazzo.

Infilò le chiave di mezzo nella serratura e la porta si aprì così, senza forzature. 

Le maioliche del pavimento erano opache e sbeccate in alcuni punti, le pareti allungavano ragnatele lievi da un angolo all’altro. Sul tavolo e sui divani di vimini erano stati poggiati dei lenzuoli, come tumuli, pensò Lea; al lato delle scale c’era una valigia aperta, una bottiglia di Albariño vuota, un paio di occhiali da sole, un sandalo con un tacco spezzato.

Vinz aprì le persiane e poi le finestre, la luce svelò la polvere come una patina d’oblio silenziosa e nobile; il vento fece cadere la bottiglia, agitò i lenzuoli e la gonna di Lea.

Vinz si spostò nel lato sud del salone, dove una finestra che affacciava direttamente sul mare non era mai stata chiusa. Sotto, nell’angolo, c’era un cumulo di sabbia, una specie di terrario naturale su cui erano cresciute delle calcatreppole marine.

Vinz guardò Lea e sorrise.

Poi, mentre si toglievano i cappotti e guardavano tra le stoviglie, Vinz sentì un accordo provenire dal piano di sopra. Come se qualcuno stesse provando a suonare uno strumento a corde senza averlo mai fatto, smetteva e ricominciava senza tregua. Il suono era staccato e acido. A Vinz parve quasi di sentire la vibrazione delle corde che attraversava l’aria e l’intera casa per finirgli dritta nella pancia.

Percorse le scale lento al ritmo della musica a pezzetti. Lea aspettò che arrivasse in cima, e poi lo raggiunse in silenzio, col passo vuoto di chi ha imparato a guardare da lontano. La porta della stanza che era stata di Vinz era aperta e oscillava piano, la finestra aveva perso i vetri in un giorno in cui l’Atlantico, aizzato dal maestrale, non aveva lasciato scampo a nessuno, una persiana penzolava all’interno della stanza, la riproduzione della Venere di Botticelli era stata stuprata dalla grandine e dal sole.

Al centro della stanza c’era quel che restava di un’arpa. Le parti di legno erano screpolate e grigie, da un lato e dall’altro molte corde erano saltate e ricadevano come felci rachitiche sul pavimento.

Vinz suonava l’arpa. Pizzicava le corde e ne faceva ritmi veloci e ossessivi che mai avresti pensato di sentire da uno strumento così. Suonava l’arpa da quando Chiara se n’era andata ma era sempre l’arpa di qualcun altro. Nei conservatori, nelle chiese, nelle case improbabili di certe signore a Scampia, negli attici di uomini nudi a New York. Vinz suonava l’arpa degli altri e quelli pensavano che stesse lì a strofinare le corde per loro ma lui suonava solo per sé; perché solo allora riusciva a mischiare il suono al battito doloroso del suo cuore e mentre li confondeva e li ammassava, era capace di allontanarli. Di spingerli fuori dalle stanze, dalle case, dagli attici e dal suo corpo.

Ma che cazzo ci fa un’arpa qui?

Lea lo vide che giocherellava con le corde spezzate, seduto a terra con le gambe incrociate.

Vinz non rispose, si mise in piedi, si mise a suonare. E suonò così forte quelle poche corde che rimanevano che a Lea sembrò che l’arpa si fosse messa a urlare. Il grido di una scimmia nella tagliola, di un maiale tirato per la coda.

Suonò Vinz e poi buttò le braccia e la testa a terra e Lea lo acchiappò in tempo prima che potesse produrre un tonfo che avrebbe rotto tutto. Lo strazio, il ricordo, la mania, la forza. L’amore. Sopra tutto.

Lea prese a baciarlo come si fa con uno che credevi morto e torna dalla guerra in una mattina di Pasqua.

Gli baciò gli occhi e le orecchie, gli baciò il collo e il mento, gli baciò i capelli lucidi di sudore e di tristezza, gli baciò la bocca.

Si prese tutto, Lea. Si prese tutto Vinz senza capirlo e senza pensarlo.

E non sentirono il vento di fine autunno che gli cantava addosso dall’Atlantico, non sentirono i gabbiani annoiati alla ricerca di storie da raccontare.

Si amarono in una stanza con l’arpa, in mezzo ai lanicci e al guizzo dei pesciolini d’argento.

Poi, nudi, si infilarono i cappotti e le scarpe e corsero fino al mare e stettero lì, in piedi davanti all’oceano, senza dire una parola.

Vinz alla fine le dette un bacio sui ricci infiniti.

Ehi, Telespalla Bob, le disse, stai bene?

Telespalla Bob. Tua madre mi chiamava così.

Tu sei Telespalla Bob ma molto più figa.

Che scemo.

Mangiamo?

Andiamo.

Si infilarono in una bettola poco distante dal porto e coi cappotti chiusi e lo sguardo stranito dell’oste mangiarono maiale e cime di rape e risero in mezzo ai bicchieri sbeccati, sempre pieni di Mencia. Dormirono in un ostello nel centro storico e tornarono a Los Terceros solo una volta in quei giorni. Le corde dell’arpa erano saltate tutte, le calcatreppole sembravano più secche e meno spaventose, il tacco spezzato era sparito.

Presero le loro borse.

Lea si allontanò verso il molo.

Vinz richiuse la casa.

Lea tieni, le dai tu alla mamma? Ma che facciamo stavolta in aereo?


[Illustrazione di copertina di Diana Daniela Gallese]

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