La primavera di gennaio

di Giulia Sabella

«Guarda, sono spuntate le fragoline». 
Michela spinse la sedia a rotelle mentre Cesare tendeva la mano verso il vaso di coccio. 
«Guarda come sono rosse», continuò lui. Dal terriccio facevano capolino quattro piantine dalle quali penzolavano delle fragole piccole e pelose. Cesare ne prese una, con la mano tremante e piena di macchie, e se la portò alla bocca. 
«Senti come sono dolci», ne staccò un’altra, porgendola alla nipote. 
«Sì, sono buonissime», mentì lei masticandola.
Lui sorrise, mostrando i denti ancora lisci e bianchi, e si tirò indietro con la schiena, allargando le braccia. Chiuse gli occhi e inspirò rumorosamente, riempiendo con il torace la camicia blu che lo avvolgeva. 
«Sembra primavera oggi, sembra davvero primavera. Che giorno siamo?»
«Il due gennaio»
«Il due gennaio ed è primavera. Senti come batte il sole»
«Non hai freddo? Vuoi che ti porti dentro?»
«No, portami là, dove c’è la verbena»
«Qual è la verbena?»
«Quella là, rosa, in fondo alla terrazza». 
Michela spinse la sedia del nonno facendo attenzione che la coperta di pile che gli copriva le ginocchia non si infilasse tra le ruote. 
«Guarda com’è rosa. E guarda le striature bianche. Guarda Michela, guarda che bei colori. E guarda, è fiorito anche il plumbago. Guarda che bell’azzurro, pare quasi un viola. Poi questo verso maggio va potato, bisogna farlo respirare». 
Cesare tolse con le dita alcune foglie morte che si nascondevano sotto i fiori. 
«Ci sono pure i limoni!» disse poi, indicando i vasi vicino al divanetto di vimini. Michela spinse ancora la carrozzina, mentre Cesare si dimenava come un bambino. Quando si avvicinarono alla pianta, lui si sporse e accarezzò un frutto con la mano, avvicinandolo alla bocca. 
«Che profumo. Che bellezza. Ancora non sono da cogliere, bisogna lasciarli ancora un altro po’ ma senti già che odore. Sai che maionese ci facciamo quando sono maturi?», rise. Seguì con lo sguardo le piante e i colori che erano spuntati sul terrazzo. A un tratto aggrottò la fronte. 
«La buganvilla»
«Cosa, nonno?»
«Portami lì, alla buganvilla». 
Michela seguì l’indice di Cesare, ignara se quella pianta che si arrampicava sul traliccio di legno fosse quella che lui voleva. Arrivati lì davanti, Cesare iniziò a studiarne le foglie, a tastarne i rami. 
«Portami le cesoie», ordinò alla nipote, sempre con la fronte aggrottata. Michela si guardò intorno. «Là, dentro la cesta di vimini, vicino al divanetto». Lei ubbidì. Nel dubbio gli portò anche i guanti che ci trovò dentro e porse tutto al nonno. Lui prese le cesoie e iniziò a tagliare alcuni sottili rami marroni che Michela non aveva neanche notato, con una destrezza che ignorava che il nonno avesse ancora. 
«Papà, torna dentro. Devi prendere la terapia», disse Francesca sporgendosi sulla portafinestra che dava sulla terrazza. «Ma non vi fa freddo?» chiese poi, portandosi lo scialle alla gola. 
«Ma come freddo? – disse Cesare, ancora con le cesoie in mano – non vedi che sole? Non vedi che è primavera?»
«Torna dentro, che ti prende un malanno». 
Cesare guardò Michela. 
«Andiamo a mettere a posto le cesoie» le disse. Lei lo spinse fino al divanetto e mise cesoie e guanti nella cesta di vimini, mentre lui rimirava i suoi limoni, ridacchiando tra sé. Lo spinse poi verso la portafinestra, ma lui le indicò di nuovo il vaso di coccio dove erano spuntate le fragole. «Prendiamone ancora una» le sussurrò ridendo, come se stessero tramando chissà quale marachella. Lei lo accontentò, e rientrarono in casa che lui stava ancora succhiando rumorosamente. 

Cesare morì il 9 gennaio. I funerali vennero organizzati l’11. La mattina, mentre quelli delle pompe funebri chiudevano la bara nella camera da letto del nonno, Michela era al piano di sopra, in cucina, appoggiata contro il frigorifero, ad aspettare che salisse il caffè. Fuori pioveva. La vecchia radio vicino ai fornelli era accesa e qualcuno disse che David Bowie era morto nella sua casa di New York. Michela pensò che quella sarebbe stata una pessima giornata.    

[Illustrazione di Francesca Gori]

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