Io e Bafometto, Gregorio H. Meier, Wojtek Edizioni, 2021
Ci sono scrittori apollinei che adottano come principio creativo una luminosa razionalità capace di narrare eventi con quella tipica chiarezza di chi vede il mondo e le relazioni tra gli stati di cose attraverso la lente di una logica rigorosa; al loro fianco, su una linea del tutto parallela e non convergente, troviamo scrittori caotici, che fanno della mancanza di rigore geometrico il cardine percettivo su cui far ruotare un’interpretazione del mondo più sensoriale, ma al contempo più oscura, tangente alla sfera poetica e alla rinuncia di un principio logico ordinato. Ci sono poi scrittori che non si collocano in nessuno di questi due binari, di questi due metodi di sviluppo narrativo e quindi di interpretazione del mondo, ma oscillano pericolosamente tra l’uno e l’altro. Il più delle volte questi pendoli umani tendono a cupe rivolte contro la loro epoca, senza che a nessuno sia chiaro esattamente da quale parte stiano, ma ci sono alcuni pendoli umani che invece riescono a combinare una visione luminosa col caos che si ritrovano davanti. Una luminosità non razionale, ma sensoriale.
Tra questi ultimi nella nostra epoca possiamo annorevarne molti pochi. Forse il Calvino del periodo fantastico (quello della trilogia dei nostri antenati, ovvero Il visconte dimezzato, Il barone rampante e Il cavaliere inestinte), dove alla lettura immediata e derivata da uno studio sulla favola si congiunge un piano allegorico e simbolico molto complesso di analisi della contemporaneità, così che il disordine dell’uomo del novecento viene illuminato da una strategia narrativa che ricade nel fiabesco, con una complessità che riesce a rimanere leggerezza, in un equilibrio tra fantasia e profondità di cui solo pochissimi sono capaci. Potremmo addirittura vedere questa abilità come una vera e propria scuola sensoriale, che vede tra i suoi adepti scrittori come Rudolf Erich Raspe, col suo Le avventure del barone di Münchhausen, Jules Verne con il suo dittico Dalla terra alla Luna e Intorno alla Luna, I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift (a dire il vero citare tutti gli autori di questo genere tra settecento e ottocento sarebbe veramente lungo, ma è significativo che con l’apoteosi della civiltà industriale quella narrazione fantastica tenda a scomparire). Andando a ritroso troviamo sicuramente personaggi come Ludovico Ariosto col suo Orlando furioso (che deve essere contrapposto negli intenti all’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo) per sprofondare sempre di più nella cultura greco-romana, da Luciano di Samosata, Apuleio e così via fino a raggiungere forse il padre di questa dinastia, ovvero Esopo. Questa ricostruzione è senza dubbio parziale e frettolosa, ma è un fatto che oggi come oggi questi pendoli umani che oscillano tra luminosità e caos sono sempre meno, se non addirittura una vera e propria rarità.
Dunque è stata una sorpresa per me trovarmi di fronte il libro di Gregorio H. Meier (il cui significato dell’H. nel suo nome non mi è ancora del tutto chiaro), perché il suo libro, Io e Bafometto, si colloca su una strada che purtroppo io davo per morta. Meier è stato capace di dimostrare che invece quella scuola (se così la si può chiamare) non solo è viva, ma rimane ancora incredibilmente feconda e questo anche perché pone la fantasia come vero e proprio faro sulla realtà senza che questa sia asservita all’intelletto. Per dirla con Kant: siamo di fronte a un libero gioco tra immaginazione produttiva e facoltà intellettiva dove l’elemento su cui dobbiamo soffermarci è proprio il libero gioco – libertà e giocosità – senza che questo comporti la perdita della profondità (come succede nella letteratura di intrattenimento tipica dell’industria culturale contemporanea).
Leggere Io e Bafometto (per chi non lo sapesse Bafometto è un idolo pagano divenuto poi sinonimo del Diavolo, per eccellenza simbolo del disordine sensoriale) è quindi stupefacente, perché ogni volta che il lettore inizia a credere che la narrazione andrà in una certa direzione, quella direzione lì viene disattesa dall’invenzione fantastica della immaginazione produttiva, prendendo il lettore in contropiede, nel senso che non provoca il disappunto dell’aspettativa frustrata, ma la gioia della sorpresa. E non so cosa si possa chiedere di più da un libro che di essere sorpresi. Forse, a ben pensarci, dovrebbe essere proprio questo il loro scopo.