Il culto del feto. Come è cambiata l’immagine della maternità, Alessandra Piontelli, Raffaello Cortina Editore, 2020
Essere incinta è come fare un parcheggio a S in centro all’ora di punta: tutti ti fissano, ti danno indicazioni e, nel profondo, pensano che loro sarebbero molto più abili di te (anche se magari non hanno nemmeno la patente). Oltre alla pressione esterna, c’è anche il timore che ogni tua scelta, ogni tuo comportamento, anche quello apparentemente più innocuo, possa avere delle conseguenze nefaste sul feto e, di conseguenza, segnare a vita l’essere umano che darai alla luce. E così il lavaggio dei pomodori diventa una roulette russa con la toxoplasmosi, e si insinua il timore di dover accantonare l’ascolto dei CCCP per un più sereno Mozart, in modo da favorire il sano sviluppo psicofisico del fanciullo.
Quando ho scoperto di essere incinta, una delle prime cose che ho fatto – dopo essermi fumata una sigaretta – è stata andare in libreria per cercare un testo affidabile in grado di traghettarmi attraverso questa esperienza. Arrivata nel reparto infanzia e maternità, mi sono trovata davanti dei libri che mostravano in copertina donne sorridenti con salopette anni Ottanta, e che chiamavano “il cucciolo” quell’insieme di cellule che si trovava nel mio utero, del quale ancora non sapevamo neanche il sesso (anche se ero convinta che fosse un maschio). Sono stata assalita da un momento di panico – forse perché lì, davanti a quegli scaffali, la cosa stava iniziando a sembrare reale – e sono sgattaiolata via. Sono quindi approdata al reparto di sociologia dove ho trovato Il culto del feto della psichiatra e neurologa Alessandra Piontelli.
Diciamolo subito: non è un testo rivolto (necessariamente) alle donne in attesa. Non troverete consigli su quali cibi mangiare, su quali attività fisiche svolgere, quante ore dormire o come sconfiggere le nausee. Niente di tutto questo. Il testo analizza invece come è cambiato il concetto di maternità e in che modo si è passati da un generale disinteresse per i feti a oggi, dove questi sono al centro della narrazione. Ogni donna in attesa si trova a dover affrontare una serie di pressioni sociali, tanto da sentirsi talvolta solo un mero contenitore. A riprova di questo, basti pensare al caso dei cimiteri dove vengono seppelliti (spesso all’insaputa delle madri) i feti abortiti, o anche al successo della serie TV The Handmaid’s Tale, ispirata all’omonimo romanzo di Margaret Atwood, che racconta di un mondo distopico dove il valore delle donne viene misurato sulla loro capacità di procreare.
Il libro tratta l’argomento da tre punti di vista: il primo è quello sociologico. “I feti non sono cambiati, ma le società sì”, scrive Piontelli nell’introduzione. Ed ecco allora che nel corso degli anni si è passati da una maternità quasi nascosta a una più esibita, come dimostra la copertina di Vanity Fair del 1991, che ritraeva una Demi Moore nuda con un il pancione in bella vista. Le evoluzioni tecnologiche – con la possibilità di osservare lo sviluppo degli embrioni – e anche l’innalzamento dell’età in cui si fanno i primi figli, hanno fatto sì che colui che abita l’utero della donna venga considerato a tutti gli effetti un bambino, portando con sé un bagaglio di questioni etiche che coinvolgono temi come l’aborto e i diritti dei feti stessi.
La seconda parte è quella scientifica, dove si spiega come i feti si sviluppano e del perché compiano certi movimenti, cercando di fare luce su alcune leggende metropolitane. La terza parte è invece un excursus su come i feti vengono visti in altre culture, per scoprire che è proprio la società Occidentale, che ha quasi eliminato le morti per parto e dove le donne fanno figli sempre più tardi, che ne è diventata così ossessionata.
“I feti sono immutabili e cambiano solamente a seconda dei tempi e dei luoghi”, scrive Piontelli; in una società in cui le donne, il loro corpo e i loro uteri sono sempre più al centro della scena pubblica, questo testo ha il merito di cercare di fare chiarezza per riuscire a contestualizzare il dibattito in corso, ricordandoci che non esiste un solo modo di vedere la maternità.
[Foto di copertina: Speranza II, Gustav Klimt]