Dormite, viventi!

di Alexander Onoff

Racconto in due puntate – I

Dalla casa di Anna

Non ho mai pensato che Yuri potesse essere in grado di fare del male a qualcuno e tutt’ora ne sono convinta. Anche ora che lo vedo attraversare Piazza della Resistenza con le manette ai polsi scortato da due uomini nascosti sotto uniformi nere da carabinieri. Staranno patendo un caldo infernale ma l’uniforme li rende comunque temibili; non i loro volti di ragazzi poco più che trentenni e nemmeno i mitra portati a tracolla, bensì la sola uniforme è capace di marcare una separazione netta tra chi guarda e chi subisce o, per meglio dire, tra il mondo di chi giudica e di chi è giudicato. Yuri cammina a testa alta, potrebbe chiudere gli occhi e lasciarsi guidare dall’esperienza per quanto minuziosamente conosce il paese, ogni sua pietra, anche quelle mancanti, gli avvallamenti nell’asfalto, nemici invisibili e terribili per i ciclisti forestieri. Ricordo che all’inizio, quando bussò alle prime case fuori dalla stazione per chiedere se qualcuno avesse una stanza in affitto, con indosso una tuta da lavoro blu piena di strappi, gli anziani gli avevano parlato dalle persiane senza farsi vedere in volto. Al bar era stato soprannominato “il toro di Minsk” e chiamato Toro o Minsk a seconda dei giorni. Qualcuno aveva giurato di aver letto il nome della città sulla sua carta d’identità e tanto era bastato affinché nella settimana successiva al suo arrivo nessuno si fosse curato di conoscere il suo vero nome. Il primo a dargli ospitalità era stato Remo, a patto che lo aiutasse a raccogliere e spaccare la legna. Con un letto e un tetto sopra la testa Yuri aveva smesso di girare per il paese ma tutti, a quel punto, avevano iniziato a informarsi su di lui tramite Remo. Le due parole che sa nella nostra lingua gliele ho insegnate io, era solito dire accompagnando la battuta con un sorriso che si faceva largo come un taglio tra la grigia barba ispida. Remo aveva costruito gran parte dei mobili delle case in paese, non c’era cucina senza portaspezie,  soggiorno senza libreria o camera da letto senza cassettiera che non fossero figlie delle sue mani; e siccome considerava ogni creazione per metà sua e per metà della persona che gliel’aveva commissionata, sentiva che la sua casa iniziava nell’ingresso della prima abitazione a est e terminava nel ripostiglio dei Liberati, ultimo edificio a ovest; e siccome tutti noi la pensavano allo stesso modo Remo era quasi ogni giorno ospite di un compaesano per pranzo o cena. Ricordo che le prime volte che si era portato dietro Yuri la reazione era stata fredda e anch’io, che di solito lo aspettavo il giovedì verso le 12.30, quando lo avevo visto arrivare con quel ragazzone sudato ero stata invasa dall’imbarazzo, come se fosse lì per giudicare tutto di me, il mio aspetto, la mia casa, la mia cucina. A quel tempo mio marito lavorava ancora nell’azienda informatica fuori città e mio figlio frequentava l’ultimo anno delle elementari: il giovedì aveva rientro, così mi trovavo sola in casa fino alle cinque del pomeriggio. La prima e unica frase che mi disse Yuri durante quel pranzo fu il suo nome preceduto da “tanto piacere” mentre varcava la soglia. Come al solito Remo aveva controllato velocemente le quattro sedie costruite almeno dieci anni prima, queste dureranno un secolo, aveva ripetuto per l’ennesima volta incapace di nascondere un moto di orgoglio. Durante il pranzo avevamo chiacchierato degli altri senza risparmiarci, come fossero compagni di banco; analizzavamo la settimana seguendo le deviazioni dalla routine come una canzone trasmessa a tarda notte da una finestra o un’accesa discussione auscultata senza malizia da una casa durante una passeggiata. Yuri aveva aperto bocca solo per mangiare: aveva spazzolato sia la pasta che il secondo, facendo scarpetta col pane in entrambi i piatti. Ricordo di averlo salutato convinta che non avesse capito una sola delle parole che mi ero scambiata con Remo ma che fosse comunque felice. Ecco sì, mi aveva dato proprio l’impressione di essere una persona felice.

Dalla casa di Ines

Lo sapevo! L’ho sempre detto! Quei due tramavano qualcosa nel laboratorio, l’ho detto mille volte al parroco, al comandante della caserma, a chiunque incontro al bar della piazza, ma qui tutti mi prendono per scema, tutti mi trattano come una pazza. Avete visto? Il Toro non tiene più la testa alta, non tratta più gli altri come formiche da schiacciare, quelle manette pesano come macigni, ed è giusto così! Vengono giù dalla casa di Remo, l’avranno beccato con le mani nel sacco. Non deve essere stato facile fermarlo. Guardate!, uno dei poliziotti ha un taglio sul viso, per poco non ci ha rimesso un occhio. Finalmente potrò dormire serena, finalmente quei maledetti suoni avranno fine, non avrò più paura di uscire la notte per fare una passeggiata. Ne ho viste e sentite di cose dalla finestra della cucina: luci accese nel laboratorio fino alle 3 di notte, uomini e donne che entravano dopo il tramonto e uscivano la mattina seguente — potrei giurare che qualcuno non è mai uscito — rumori improvvisi capaci di togliere il sonno. All’inizio mi sono anche detta “chi sei tu per giudicare?”, perché qui ci conosciamo tutti e sappiamo tutto di tutti ma del Toro, di Yuri come lo chiamano in paese, non ho mai saputo granché né me ne sono mai interessata. Però fui io a indicargli la casa di Remo quando venne a bussare. Non capiva una parola, gesticolava, sembrava stanco, sono certa che avrebbe dormito ovunque e di spazio ne avevo, ma dietro quei piccoli occhi blu non vidi niente di buono e così gli indicai la casa che stava esattamente di fronte alla mia. Avrei potuto consigliargli qualunque altra casa, solo dopo mi dissero che aveva già fatto il giro di tutto il paese, ma l’istinto mi suggerì di indirizzarlo dove avrei potuto tenerlo d’occhio giorno e notte. Così la sera, da quando iniziavo a tagliare le verdure, invece di guardare il piano cottura giravo la sedia verso la finestra e i primi giorni niente sembrava cambiato rispetto al solito traffico di parenti, amici e clienti. Remo era spesso fuori, mangiava a casa di chiunque, ma da me non si azzardava a venire: uno dei suoi scaffali per poco non aveva spaccato la testa al mio nipotino. Al tempo aveva dato la colpa ai tarli ma non era riuscito a trovarne nemmeno uno e gli altri mobili non avevano avuto alcun problema. Si era offerto di rifarmelo e di trattare tutta la casa con una sostanza protettiva ma l’immagine del sangue sulla tovaglia e sul pranzo appena preparato mi avevano convinto che né lui né uno dei suoi mobili avrebbero mai più varcato la mia soglia. A distanza di anni, quando Carlo viene a trovarmi con i capelli tagliati, riesco ancora a vedere la cicatrice. Lui non ricorda quasi nulla dell’incidente e ogni volta che va a salutare Remo mi si stringe il cuore, soprattutto da quando è arrivato il Toro. Provo ogni volta a chiedergli se ha notato qualcosa di strano e lui, ogni volta, mi prende in giro dicendomi che ha visto una grossa croce rovesciata appesa in bagno, un intero squadrone fascista pronto ad attaccare al calar della notte oppure decine di bambini intenti a confezionare droga. Ogni volta una storia nuova accompagnata da una risata, come se le mie preoccupazioni fossero solo visioni di una persona fuori dal mondo, i sintomi di una regressione prossima alla demenza, e non il risultato di un’osservazione meticolosa di quella casa, degli spostamenti dei suoi abitanti e degli ospiti, delle luci accese a notte fonda, dei suoni misteriosi che mi svegliano le poche volte in cui riesco a dormire. Mi hanno lasciata qui, se ne sono andati tutti in città per lavoro, per amore o per il mal d’auto, e ora pretendono di saperne più di me. Hanno dato per scontato che avrei voluto passare i miei ultimi anni nella casa in cui sono nata con una tale fermezza che non ho avuto il coraggio di oppormi. Ricordo che Zoe, mentre caricava in macchina l’ultima valigia, disse «qui conosci tutti, hai le tue amiche, la chiesa, il bar, la televisione, non ti manca niente», poi un bacio e arrivederci alla domenica e ai giorni festivi per i quindici anni successivi. Quando due anni fa morì Celia, l’ultima signora con cui giocavo a carte, non dissi niente a mia figlia né a Carlo; non volevo che mi portassero con loro in città o in una casa di riposo. Tutti pensano che gli abitanti di un paese siano per forza solidali gli uni con gli altri, amici per il solo fatto di abitare uno accanto all’altro, ma per una come me, che aveva sempre mantenuto rapporti con poche persone e ignorato il giudizio di tutte le altre, fu liberatorio sapere che potevo finalmente stare in casa e dedicarmi a qualcosa che fosse solo mio: i traffici nella casa di Remo. Ora che il Toro è stato arrestato dirò a Zoe della morte di Celia e, finalmente, lascerò questo paese.

Da un vagone di seconda classe

D’estate i treni regionali sono delle celle frigorifere. Resisto solo per la promessa del sollievo che proverò una volta arrivato dalla mia stupenda ragazza e, al ritorno, per essere di nuovo solo con me stesso. Il mezzo su cui viaggio è un nuovissimo modello che sembra appena uscito dai test di sicurezza, la copertura blu con geometrie gialle è talmente lucida e i finestrini talmente brillanti che se un pazzo ti stesse assaltando alle spalle lo vedresti riflesso nella carrozzeria con sufficiente anticipo. I sedili imbottiti sono più comodi ma anche più stretti, non c’è più spazio dove appoggiare la testa e nemmeno i piedi; le porte dei bagni, più simili a camere del suicidio che a luoghi sicuri, sbattono continuamente a causa di un difetto nella chiusura; in alcune carrozze l’aria condizionata non funziona, in altre funziona il doppio, in pratica è una sauna finlandese meno costosa; alcuni posti sono perpendicolari al senso di viaggio, un vero trauma per chi, come me, aveva impiegato anni a godersi i paesaggi anche guardandoli scivolare via verso la coda del treno e ora, nei giorni di alta frequentazione, si ritrova la vista coperta dagli altri viaggiatori; i messaggi audio pre-registrati a volte sono troppo bassi, altre talmente alti da far fischiare le casse, altre ancora annunciano stazioni di altre tratte, ma col giusto volume; sugli schermi che dovrebbero riportare orario, temperatura, prossima fermata, ritardi e altre amenità vedo scorrere notizie troppo piccole per essere lette ma che capisco essere vecchie almeno di un giorno. Il bello è che nessuno si lamenta col capotreno, ma probabilmente è perché vederne uno passare tra le carrozze è più raro che avvistare una tigre siberiana in centro a Bergamo. Possono raccontarmi tutte le storie che vogliono sulla comodità delle nuove vetture ma credetemi quando vi dico che pagherei per riavere i vecchi sedili dove potevi non solo addormentarti ma anche invitare amici. Il viaggio non è mai piacevole, c’è sempre qualcosa che ne condiziona la bellezza, eppure riesco sempre a godermi qualche momento di riposo che mi permette di arrivare a destinazione non proprio distrutto e con una dose, seppur minima, di forze sufficienti a non farmi stramazzare prima del dovuto. Il ritorno è molto più stancante perché si porta appresso giorni intensi vissuti sulla pelle di due amanti che hanno ancora voglia di strapparsi brandelli di carne e di non perdersi nelle consuetudini di coppia. Ma è anche il momento in cui posso godermi la vista, imparziale e distaccata, di una scena meravigliosa. A circa metà tragitto il regionale entra in una galleria talmente buia da far pensare che lì, è solo lì, abitino delle creature notturne mai studiate da occhio umano e che, se non fosse per le luci della carrozza, potremmo immaginare di essere dentro uno di quei giochi spacca-stomaco dei grandi parchi divertimento oppure lanciati attraverso un wormhole in universi lontani antecedenti o successivi al nostro. Durante i primi viaggi, l’ingresso nella galleria rappresentava un segnale psichico che il mio sistema nervoso traduceva in sonno istantaneo; fu solo dopo un viaggio allucinante nel quale ero stato circondato a tradimento da una famiglia più rumorosa di uno zoo sotto anfetamine che la scena si presentò ai miei occhi impreparati: esattamente alla fine della galleria il treno rallentava per entrare in una stazione talmente piccola da essere praticamente tutt’uno con la città. A destra e sinistra dei binari non c’erano banchine per l’attesa dei passeggeri ma un prato curato pieno di persone pronte a seguire gli ultimi metri prima dello stop, correndo per salutare chi si affacciava dai finestrini con sorrisi di pura felicità. Stavo vivendo il sogno di un reduce della Prima guerra mondiale? Madri con piccoli in braccio e le gambe ben piantate agitavano fazzoletti colorati, ragazzine con gonne svolazzanti cercavano di stare al passo col treno rischiando di cadere a terra o di scontrarsi l’un l’altra per l’euforia, un anziano scrutava ogni singola carrozza, finestrino per finestrino, in cerca della persona giusta da aspettare; tutto era talmente bello e armonico che pensai davvero di essere capitato dentro una magnifica finzione oppure di essermi addormentato nonostante la famiglia di pazzi. Poi uno dei due ragazzini cominciò a tirare calci al mio schienale e l’incantesimo si dissolse. Girai la testa con l’intento di rivolgermi ai genitori che occupavano un blocco di posti dall’altra parte della carrozza, senza pormi troppe remore sul linguaggio — d’altronde, se la loro idea di educazione coincideva con il concetto di selezione naturale, non sarebbero stati di certo un paio di parolacce a cambiare il corso degli eventi — quando proprio dal finestrino che stavano ignorando, impegnati a cercare chissà quale tesoro nei loro cellulari, vidi un uomo allontanarsi dal treno e sparire velocemente nella vegetazione incolta, inseguito a breve distanza da altri due uomini vestiti di nero. Gli altri passeggeri stavano scendendo dalla parte opposta, in teoria l’unica aperta. Le famiglie, le coppie, gli amici si ricongiungevano nuovamente e con loro il paese, di cui intravedevo alcune casette, rinnovava la sua promessa di protezione e candore. Dell’uomo che avevo visto scomparire dentro siepi campestri ricordo la stazza, considerevole, la rasatura quasi totale dei capelli e la tuta da lavoro blu segnata da strappi vistosi. Da quel giorno, ogni volta che termina la galleria, estraggo la macchina fotografica analogica dallo zaino e scatto fintanto che il rullino scorre.

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