Al centro del contendere. Alcune riflessioni su “Bandito”, di Laura Secci

di Salvatore Cherchi

di Salvatore Cherchi

Bandito – Matteo Boe: la vita, il carcere, la libertà, Laura Secci, Il Maestrale, 2021

Bandito. Matteo Boe: la vita, il carcere, la libertà è un libro scritto dalla giornalista Laura Secci, e pubblicato dell’editore Il Maestrale (Nuoro) a inizio 2021.
È la “biografia romanzata”, o il “romanzo-verità” (come definito in quarta e retro di copertina), di un “bandito” salito alle cronache nazionali tra gli anni Ottanta e Novanta, a seguito di alcuni sequestri di persona, per i quali è stato considerato uno dei più noti esponenti del “banditismo sardo”.
Le virgolette sono d’obbligo, perché quando parliamo di banditi e banditismo, parliamo di una forma di criminalità trasversale e complessa, non ascrivibile ai soli rapimenti di persone a scopo di estorsione di denaro (i “sequestri economici”).
Si tratta di qualcosa che si radica lungo la storia dell’isola, nelle peculiarità del suo territorio interno, nelle attività che vi si svolgono, nel rapporto tra le comunità montane e quelle costiere e cittadine, queste ultime più esposte e storicamente accondiscendenti verso i “conquistatori” che, nel corso dei secoli, sono arrivati sul territorio e hanno imposto la loro legge. Che fossero fenici, romani, spagnoli, austriaci o, in ultimo, italiani, prima e dopo l’unità.

Sul tema si rimanda a un interessante saggio, Storia e miti del banditismo sardo, dello storico Manlio Brigaglia, pubblicato nel 2009 per La biblioteca della Nuova Sardegna.
Un testo nato come lavoro per l’inchiesta parlamentare sul banditismo in Sardegna, e che permette di ricostruire, con sintesi ma rigore, la storia della criminalità isolana, dalle prime forme di opposizione e resistenza a provvedimenti legislativi che andavano contro “su connottu” (il sistema conosciuto, cioè gli usi che regolavano i rapporti comunitari); all’uso, da parte dei possidenti, di gruppi di mercenari reclutati tra i latitanti, per forme di protezione e oppressione; sino alla teorizzazione del “codice barbaricino” da parte del filosofo del diritto Antonio Pigliaru, che ha permesso di comprendere meglio alcuni fenomeni violenti (come le faide), i quali venivano repressi per mano giuridica e militare, senza riuscire a dare una reale risposta alle peculiarità storiche e culturali di un territorio, geograficamente e storicamente, isolato e autogestito.
Come si legge in Brigaglia “La storia dei sardi è la storia della loro solitudine: la solitudine e l’isolamento della società sarda nel corso dei secoli, la solitudine degli individui, perduti in questi deserti di pietra e silenzio”.
L’analisi dello storico si ferma al 1971, poco prima della “stagione dei sequestri”, un periodo in cui il sequestro di persona divenne un’attività criminale redditizia. In particolare, le cronache del decennio ‘70-’80, raccontavano dell’Anonima Sarda (o Anonima Sequestri), una presunta organizzazione criminale la quale però, secondo la ricostruzione di Brigaglia sugli atti processuali, non era un’associazione criminale organizzata sullo stampo delle cosche mafiose, ma era composta da criminali vari, i quali, una volta commesso il reato, si separavano. Tuttavia, l’uso del termine sulla stampa ha in parte contribuito a sovrapporre il fenomeno del banditismo con quello dei rapimenti. Ma questa è un’altra storia.

Tornando al nostro libro, pochi giorni dopo l’uscita (avvenuta il 9 gennaio) un giudice ne ha bloccato la distribuzione, perché pareva mancasse il consenso dello stesso Boe a esserne oggetto. Una dichiarazione infondata, come abbiamo avuto modo di verificare anche con l’editore, il quale possiede una liberatoria firmata che autorizza tanto la pubblicazione dell’opera, quanto la sua forma e sostanza.
Il libro è infatti costruito attraverso la corrispondenza e i successivi incontri avvenuti tra la giornalista della Stampa e Boe tra il 2012 e il 2017, quando quest’ultimo scontava la pena nel carcere Opera di Milano, in regime di Alta Sicurezza.
Gli interventi dell’autrice sono minimi. Iniziano con un’introduzione, utile a contestualizzare il suo interesse verso la figura del “superlatitante”, come lo definiva il sottopancia di un servizio giornalistico che, quando la Secci aveva 14 anni, nel 1992, raccontava della cattura di Boe in Corsica. Interesse che, col tempo, si è affievolito, per riemergere vent’anni dopo, quando ritrova un ritaglio di giornale da lei conservato, che racconta lo stesso episodio di cattura.

Laura Secci scrive dunque una lettera a Boe, chiedendo un’intervista, ma lui rifiuta, trincerandosi dietro un muro di orgoglio intellettuale e militante: “Sento il dovere di rispondere, per educazione, anche se i giornalisti non sono i miei interlocutori preferiti. Meno che mai una che scappa dalla sua terra per scrivere sul giornale degli Agnelli. Rifiuto quindi la sua richiesta d’intervista, i media padronali e generalisti non rappresentano un veicolo appropriato per le mie idee”.
La giornalista insiste, e riesce a oltrepassare questo muro difensivo, e Boe inizia così a rispondere alle domande, seppur con “mezze verità”, lasciando la curiosità della giornalista (e quella dei lettori) “sfiancata davanti a molte omissioni e altrettanti sorrisi”.
Ciò che ritroviamo nel libro è in prevalenza la voce di Boe che ripercorre alcuni dei momenti “salienti” della sua vita, come la militanza politica nel movimento Barbagia Rossa (costola locale delle Brigate Rosse); il rapimento in Toscana di Sara Niccoli nel 1983; la fuga dal carcere dell’Asinara nel 1986; la latitanza nelle campagne attorno a Lula (Nuoro); l’arresto avvenuto in Corsica, e la seguente odissea tra le carceri francesi e quelle italiane, durata 25 anni, sempre in regime di massima sicurezza.
Ampio spazio trova il famoso caso del rapimento di Farouk Kassam, il bambino di 9 anni prelevato il 15 gennaio 1992 dalla villa dei suoi genitori a Porto Cervo, sulla cui liberazione e riscatto ancora non è stata fatta chiarezza. Lo Stato italiano, per placare un’opinione pubblica emotivamente coinvolta nel caso, impiegò in Sardegna oltre 4000 militari nella ricerca, e voci non confermate raccontano di un coinvolgimento nelle trattative tanto dei servizi segreti quanto di Graziano Mesina, uno degli esponenti più in vista di quella che venne definita l’Anonima Sarda, e che a quel tempo si trovava in libertà condizionale in Piemonte. Farouk fu tenuto prigioniero per circa sei mesi. Non c’è traccia invece, nel libro, dell’omicidio della figlia quattordicenne Luisa, avvenuto nel 2003, i cui mandanti ed esecutori restano ancora oggi ignoti, così come il movente.

La giornalista lascia campo libero all’intervistato, tramite quanto scritto nelle lettere o ricostruendo quanto detto durante gli incontri. Manca uno sguardo d’analisi che ricostruisca storicamente o giuridicamente le vicende, ma il libro non è un saggio, bensì una sorta di ibrido: un romanzo strutturato attorno a delle interviste epistolari e ricordi messi giù sotto forma di diario. Tutti ciò viene introdotto con ritagli di giornale che riportano le cronache dei fatti di cui poi Boe parlerà.
Da una parte abbiamo dunque i fatti per come la stampa (o l’autrice) ce li ha raccontati; dall’altra l’opinione del diretto interessato in merito agli stessi, scritti di suo pugno o raccontati duranti gli incontri.

L’obiettivo della giornalista non è quello di romanticizzare la figura di Boe dandogli campo libero, quanto più, forse, lasciare al lettore la capacità di trovare tra le righe le risposte che anche lei cerca. Risposte che, dietro la corazza d’orgoglio del carcerato, nemmeno lei è riuscita a trovare.
Ciò che scorgiamo è dunque il profilo di un uomo il cui concetto di libertà e integrità morale è ambiguo. Costruito su dei rapporti di forza che appaiono, paradossalmente, tanto anacronistici quanto attuali. Dalle parole di Boe riemerge lo stesso spirito di lotta e opposizione sociale illustrato da Brigaglia nel saggio citato sopra. Uno spirito che trova senso in una ferita mai cicatrizzata, quella creata dal rapporto tra l’ultimo colonizzatore, l’Italia, e la Sardegna: un territorio assoggettato a una politica centralizzata che, nel corso degli anni, sembra non aver compreso le peculiarità storiografiche e culturali del posto.
“In quel periodo iniziai a praticare l’illegalità ‘comune’ negli ambienti tradizionali venati di idee politiche” dice Boe. “Una sorta di terra di mezzo in cui non venivano tradite le mie idee. L’obiettivo da colpire era lo stesso: la classe padronale. Le sue istituzioni e le sue banche. Politica e rapimenti. No, nessun nesso ideologico causa-effetto. C’è però un sottile filo rosso, conflitto individuale tra servi e padroni… e al centro del contendere: il denaro”.

La scelta di mostrare (quasi) in via esclusiva il punto di vista di Boe in merito alla sua vita, si è rivelata forse un’arma a doppio taglio. Se da una parte risulta interessante ascoltare il “bandito”, dall’altra, il libro suona come un’occasione mancata, quella di scoprire le sfaccettature di un uomo con “lo sguardo furioso di un animale in gabbia”, che giustifica le sue azioni violente e criminali attraverso una venatura politica e ideologica che occulta, come scrive il giornalista Giampaolo Cadalanu nella postfazione, più che un fine alto e nobile, solamente la banalità del male.

Prendendo a riferimento un caposaldo contemporaneo di biografie romanzate, Limonov, del francese Emmanuel Carrére, notiamo come entrambi raccontino di individui figli del loro tempo, delle loro terre e della loro cultura, che hanno contribuito a forgiarne una personalità ribelle che si esprime attraverso atti delittuosi e criminali giustificati da finalità politiche.
La Secci scrive e incontra Boe come Carrére scrive e incontra Limonov, ma se lo scrittore francese si immerge nel mondo e nell’esistenza del criminale russo, arrivando a compromettere sé stesso e la sua moralità (definendo così un suo modo di fare letteratura), la Secci sceglie di mantenere una giusta imparzialità, lasciando al lettore l’ultima parola sul criminale sardo, seguendo così un’operazione letteraria e giornalistica che, sotto certi aspetti, è riuscita, ma sotto altri lascia un vuoto, un senso di incompletezza.
Alla fine della lettura infatti, si ha la sensazione che il ritratto del bandito sia come una foto che, seppur ben composta, risulta sfocata. Un quadro che sorvola la vita di un individuo, del legame che ha con la storia criminale, sociale e politica della sua terra, provando a coglierne le voci, o meglio, la voce, di uno dei suoi protagonisti. Si ha così il ritratto di un uomo di cui si intuisce qualcosa ma, come in un pozzo senza luce, non si scorge la reale, o presunta, profondità.

[Immagine di copertina: foto della Vallata del Monte Albo] 

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