Santo Disagio

di Giovanna Daddi

(In memoria di Libero De Rienzo)

Per la mia generazione Libero De Rienzo è essenzialmente “Bart”, Bartolomeo Vanzetti, il co-protagonista del primo lungometraggio di Marco Ponti, Santa Maradona.

Bartolomeo Vanzetti, nome rubato al ben più noto attivista anarchico, impegnato e finito molto male, quasi a sottolineare per contrasto il divario incolmabile con l’indolenza ironica del giovane Bart.

Il film ha vent’anni precisi.

Inutile stare a riproporre le decine di battute fulminanti di Bart in quel film. Il protagonista, Stefano Accorsi, è diventato famoso, lo conoscono tutti, ma proprio tutti.

De Rienzo sanno tutti chi è adesso, che è morto.

Santa Maradona, per la mia generazione, è stato uno di quei dipinti della nostra condizione precaria, insieme a chicche note e meno note, per dirne due notevoli Cresceranno i carciofi a Mimongo e Tutti giù per terra.

Racconta una coppia di amici, diversi e uniti, che con la laurea non sanno cosa fare: e noi, che avevamo la stessa età dei protagonisti o poco meno all’uscita del film, avremmo ben presto sperimentato il sapore dei colloqui a vuoto, dei curriculum inviati e mai letti dai destinatari, delle storie d’amore senza senso, dei rapporti a consumo e di quelli ingarbugliati a cui ci si attaccava per riempire un vuoto.

Un altro modo, più elegante, di riempire il vuoto era quello di Bart: il sarcasmo, l’ironia, il distacco dalla realtà deludente, una specie di sfida con la vita: “tu non mi dai nulla e allora io ti prendo in giro”. Un Lebowski all’italiana, con tanto di accappatoio.

La mia generazione. Quella cresciuta all’ombra di genitori benestanti e in carriera, quella che, secondo molti, si è seduta su un privilegio acquisito e non ha lottato abbastanza. A questi forse avremmo qualcosa da dire e spiegare. E c’è chi ha lottato, chi ha fatto valere le proprie ragioni. E c’è chi, nel disagio, ci si è accomodato: ha arredato il malessere, individuale e collettivo, facendo cuscini di battute, quadri di disincanto e soprammobili di espedienti.
Quando non hai niente, almeno concediti di essere fico. Purtroppo al mondo non interessa, o interessa poco, ma almeno ti senti qualcosa.

«Ci vuole una catastrofe»
«Ma magari!»

Bart era la raffigurazione di questo modo di essere: tenero e al tempo stesso cinico, con il volto di De Rienzo sempre a metà tra un orsacchiotto e un guitto.
A volte sbagli tutto, a volte fai bene. Si è bene e male insieme, come Maradona, appunto.

E questa sua indolenza, questo suo prestare un volto da schiaffi alla camera di regia, l’ha riproposta magistralmente in Smetto quando voglio, che lo ha fatto conoscere di più al grande pubblico. Libero De Rienzo è Bartolomeo (di nuovo!) Bonelli, economista geniale e precario, anzi proprio disoccupato, dedito a contare le carte a poker (in un contesto in cui chiunque non si siederebbe neanche al tavolo). Bonelli gioca con i numeri, le probabilità, il caso e la vita. Finendo per perdere, ovviamente. Ma sempre con la faccia scanzonata e malinconica, che neanche un pugno riesce a cancellare: “Scusa ma tu ti occupi di statistica inferenziale, ti occupi di variabile aleatoria, ti occupi, per caso, di calcolo delle probabilità? Non credo proprio”.

La sua interpretazione migliore, da protagonista finalmente, è forse in Fortapàsc di Marco Risi, nella parte del giornalista napoletano Giancarlo Siani, ucciso a ventisei anni dalla camorra. Magro, in una trasformazione quasi impressionante che lo ha portato letteralmente a “essere” Siani, in un film in cui, già sapendo come va a finire, stai male fin dall’inizio. De Rienzo riesce a sdrammatizzare, pur nel dramma, e a prestare una prova di attore notevole.

In tanti hanno scritto che è stato sottovalutato, che non è diventato abbastanza famoso, che i suoi ruoli, a parte in Fortapàsc, son stati da comprimario, da gregario. Ecco, non è così.
Non è mai stato gregario, aveva semplicemente il ruolo ingrato, che gli si adattava benissimo, di rappresentare quella parte di cinica e disincantata verità nella commedia tragicomica che è la vita, come molti attori di razza del passato (da Walter Matthau a Tognazzi). Lui ha sempre rappresentato quello che, in fondo, lo sa come vanno le cose. Ma il fatto è che non gliene importa granché: è meglio illudersi di poter contare le carte a poker che ammettere di aver perso in partenza, riconoscere di avere una mano di schifo.

La mia generazione ha avuto molte mani da passare, lui aveva la faccia di chi, piuttosto che passare, si gioca quello che non ha.

Chissà se questa nostra passione per i perdenti, questa affezione a una condizione debosciata, non sia solo una forma estrema di resistenza, un’autodifesa a oltranza che identifica il successo come qualcosa di cafone, o di cui tutto sommato si può fare anche a meno.

Ci siamo seduti allora? Forse sì.
Però abbiamo lasciato battute bellissime.

Foto via Pensieri Cannibali
http://www.pensiericannibali.com/2021/07/ho-ricominciato-farmi-le-cannes-ma-non.html

Questo sito fa uso di cookie per migliorare l’esperienza di navigazione degli utenti. Puoi conoscere i dettagli consultando la nostra privacy policy. Accetto Leggi tutto

Privacy & Cookies Policy