L’insegnamento della scrittura creativa, tra alchimia, musica jazz e martellate.

di Salvatore Cherchi
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La scrittura non si insegna, Vanni Santoni, Minimum Fax 2020
Chiudiamo le scuole di scrittura creativa, Alfio Squillaci, GOG editore 2020

Una vecchia storia racconta di un tizio che porta l’auto dal meccanico perché ha un guasto. Il meccanico, dopo averla ispezionata, prende un martello e colpisce un punto preciso. La macchina riparte. Il tizio, stupefatto, ringrazia e chiede il conto: 500 euro.

Ma come, esclama, 500 euro per un colpo di martello?

No, risponde il meccanico. Il colpo di martello sono 5 euro. Sapere dove darlo 495 euro.

Questa storia ha molte varianti. A volte si tratta di un medico, altre di un veterinario, altre ancora di un elettricista e via dicendo. La morale è sempre la stessa, ma per quanto sia intuitivo applicarla a mestieri pratici, lo è meno per quelli creativi.

Davanti a certe opere d’arte infatti tutti abbiamo pensato: “questo potevo farlo anche io!” In un certo senso è vero, che potevamo farlo, ma se non l’abbiamo fatto è perché l’opera non sta solo in ciò che vediamo, ma nel processo che ha portato alla sua realizzazione.

Ciò che vediamo è un taglio su una tela o un tizio che dà un colpo di martello sulla testata del motore, ma ciò che non vediamo, per entrambi, è il sacrificio che quella persona ha fatto per arrivare a far ciò. Certo, ci sono le eccezioni, e per quanto possiamo sudare dietro un pallone, una tela o dei libri di fisica, non saremo mai Maradona, Pollock o Einstein.

Messi da parte i fenomeni però, ciò che resta è il sudore che ognuno di noi deve versare per arrivare a essere un professionista del mestiere.


Eppure…

… c’è una categoria che sovente si smarca da questa regola: quella dello scrittore. Di preciso, colui che scrive mosso da creatività e ispirazione, dal bisogno di mettere nero su bianco ciò che la sua mente elabora, come un gioco a cui non può rinunciare.

Quest’idea, non del tutto superata, alimenta un cortocircuito: la scrittura viene intesa come un’estensione narcisista della personalità. Chi scrive non lo fa per mestiere, ma per appagamento, perciò può essere pagato poco o nulla – o, nei casi estremi, può essere egli stesso a pagare per scrivere!

Proliferano così gli editori a pagamento, e le riviste e i giornali che retribuiscono con paghe da caporalato. Ma proliferarono anche le scuole e i manuali di scrittura creativa, da cui legioni di aspiranti scrittori vogliono carpire i segreti del mestiere.

Quali segreti, chiederete, se che la scrittura è un’arte soggettiva, intima e personale? Corretta osservazione. Quale scuola, continuerete, se la scrittura è un atto non replicabile, come ci ha suggerito Borges? Verissimo. Quale professione, concluderete, se con la scrittura non tireremo su nemmeno i soldi per le sigarette fumate davanti al PC? Colpito e affondato.

Come uscirne? Bella domanda. Ho cercato la via in due pamphlet pubblicati più o meno nello stesso periodo: La scrittura non si insegna, di Vanni Santoni (minimum fax, 2020); e Chiudiamo le scuole di scrittura creativa, di Alfio Squillaci (GOG editore, 2020).


Dal particolare all’universale

Se è possibile insegnare musica, pittura, scultura, danza e recitazione, è possibile insegnare scrittura. E infatti la scrittura si insegna a scuola. Quella che ci viene insegnata però è la scrittura pratica, utile alla comunicazione quotidiana. Al più ci viene insegnato a sviluppare un testo saggistico, giornalistico o d’opinione ma, per quanta analisi del testo venga fatta, non viene insegnato a scrivere un racconto.

Se la scuola non è sufficiente, in libreria troviamo centinaia di titoli che ci diranno come scrivere una tesi di laurea, un saggio, un articolo di giornale, un testo commerciale o pubblicitario, un bando pubblico, una legge, una lettera, persino uno spartito musicale e una sceneggiatura.

Tutti questi tipi di scrittura hanno in comune qualcosa: rispettano precise regole, che portano a produrre specifici testi. Per tutto il resto c’è la scrittura creativa.

Il termine, come ci spiegano Santoni e Squillaci, ha origini anglosassoni, e viene usato per indicare quel tipo di scrittura priva di regole ferree, ma composta tramite la combinazione creativa di elementi che danno vita a un romanzo, un racconto o una poesia.

La questione “creativa” è ovviamente qualcosa di aleatorio ed è per questo che si diffida di chi intende insegnarla. Ma gli anglosassoni hanno sempre una soluzione, ci dice Squillaci, ed è qui che entra in gioco l’howtoism, un approccio all’esperienza di tipo empirico: osservare il particolare per giungere all’universale. Se questo o quell’altro romanzo hanno funzionato, si possono smontare i loro artifici retorici, per applicarli poi alla realizzazione di altri romanzi.

La scrittura creativa dunque si insegna attraverso l’analisi delle singole parti che la compongono: plot, personaggi, ambientazioni etc. L’obiettivo delle scuole di scrittura creativa (e dei relativi manuali) è dunque quello di “insegnare il mestiere di scrittore di narrazioni partendo da osservazioni e induzioni, da casi letterari osservati” (Squillaci).

Ma questo sistema ha dei limiti. Difatti la creatività con cui Manzoni introduce un’ambientazione o delinea un personaggio, non è la stessa creatività che ritroviamo in Hugo, Tolstoj, Hemingway, Faulkner, Joyce, Roth, Houellebecq o Morselli. Ognuno ha i suoi modi e non ce n’è uno migliore o peggiore.

Dunque se l’howtoism, dice Squillaci, è funzionale per la narrativa a “forte intreccio di risoluzione”, dove l’autore cede il passo alla storia – unico interesse del lettore; è di difficile applicazione per la narrativa “di proposte e di eccezione” (quella autoriale), in cui non vi è “intreccio di risoluzione” ma “intreccio di rivelazione”. La storia, in questo tipo di narrativa, scivola in secondo piano rispetto alla visione dell’autore e alla sua “creatività” narrativa.

Dunque la scrittura creativa può essere un atto replicabile, purché si sia in presenza di elementi, appunto, replicabili, come nella letteratura di genere. Eppure, nessuno nega che anche tra le opere di genere ne esistano di “eccezione”, dall’alto valore autoriale.

Dunque le nostre domande di partenza restano irrisolte. La scrittura di un romanzo, più che una ricetta da poter insegnare, sembra una misteriosa formula alchemica. Perciò cosa ci insegnano le scuole e i manuali? Parafrasando Santoni, se non si può insegnare a diventare degli alchimisti, si può comunque insegnare a pensare come un alchimista. In che modo?


In tre parole: impegno, sacrificio e dedizione

È questo il succo del libro La scrittura non si insegna (minimum fax, 2020). Non esiste formula magica, trucco, o segreto di casta per diventare uno scrittore. Solo amore e interesse verso la materia e tanta, ma tanta, applicazione.

I fondamentali sono semplici: leggere, leggere tanto e leggere bene. Scrivere, scrivere tanto e scrivere sempre. Stop. Nient’altro. Ci sono dei corollari, come non aver timore, quando si scrive, di cancellare, riscrivere o buttare via tutto il lavoro fatto. E soprattutto confrontarsi. Confrontarsi con i pari, cioè con chi, come noi, ha passione e interesse a scrivere.

Seguire queste semplici regole ci permetterà, forse, un giorno, di “pubblicare qualcosa di decoroso”.

Tutto qui?


Tutto qui, ma…

… Prendiamo i primi due libri che Santoni propone nella sua “dieta narrativa”: Alla ricerca del tempo perduto di Proust e l’Ulisse di Joyce, due libri dove l’impronta dell’autore (la cosiddetta “voce”) è evidente.

Ora, per puro esercizio, mettiamoli in relazione ai due cinecomics che preferite, i quali rappresentano l’esempio più evidente di narrativa di consumo oggi in commercio, dove l’autorialità è l’eccezione, non la regola.

Ciò che differenzia le opere non è un confronto sul piano della qualità, ma è il modo in cui vengono scritte. Se il cinecomics è un perfetto esempio di composizione musicale Pop, l’Ulisse è un perfetto esempio di composizione Jazz. È improvvisazione, come direbbe Squillaci.

Ma improvvisare non si significa andare a casaccio: “si improvvisa sempre partendo da qualcosa […] su uno strato di letture che abbiamo obliato nella loro interezza, ma che sono rimaste come fosfeni nei nostri occhi e cervello. Sono dei residui, delle tracce mnestiche, un qualcosa di informe che al momento in cui ci poniamo a scrivere funzioneranno da guida al nostro improvvisare”. È un modo più raffinato per dire quello che dice Santoni: “solo nutrendosi di libri buoni si può pensare di produrne uno decoroso”.

Leggere dunque “il meglio” che la letteratura ha prodotto significa allenare il proprio orecchio letterario. All’inizio ci influenzerà, e affronteremo un percorso di mimesi dello stile ma, piano piano, conosceremo i limiti e le potenzialità espressive che l’arte narrativa può esplorare, e troveremo la nostra voce. Per questo leggere bene è importante, ma non basta.

È importante anche confrontarsi con chi scrive. Il confronto infatti fornisce “in un’atmosfera di reciproco contagio e stimolazione mimetica, temi, consonanze stilistiche, moduli espressivi” (Squillaci). Anche questo è un modo raffinato per dire che chi scrive deve andare a caccia di riviste, non di editori.


E i cinecomics?

Come detto, sono composizioni narrative in cui ogni singolo elemento è parte di un ingranaggio più grande, in grado di funzionare correttamente solo in maniera corale. Possiamo imparare a creare ogni singolo elemento che compone la storia, ma è la capacità di saperli dosare assieme, come in una formula alchemica o in un’improvvisazione jazz, a far la differenza. Non solo nella qualità dell’opera, ma anche nel suo essere un esempio di “consumo” o “eccezione”.

Dunque chiudiamo le scuole e gettiamo i manuali, e ci mettiamo solo a leggere e scrivere?

No, è legittimo frequentarle e acquistarli. Oltre a smussare, rifinire, potenziare, sistematizzare le nostre capacità narrative (portandoci a capire perché il colpo di martello è stato dato lì e non da un’altra parte), sono anche spazi sociali (non gli unici, non i più economici) dove è possibile confrontarsi con pari e maestri, a prescindere che si voglia scrivere una hit da classifica o si ambisca a suonare nelle bettole cittadine.

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