La memoria dell’uguale, Alfredo Zucchi, Alessandro Polidoro Editore, 2020
Se devo pensare alla luce dei cieli presenti in La memoria dell’uguale, mi viene in mente quella tipica luce invernale che si può vedere nelle nazioni montane come l’Austria, quando le nuvole sono molto alte e creano una diffusione con tonalità fredda.
La fede che Zucchi deve avere nei confronti della parola è un po’ così: una luce omogenea che va a toccare tutti gli anfratti possibili del fatto letterario fin dentro alla morte. Ed è la morte illuminata in pieno giorno, per così dire, uno dei temi intorno a cui si tesse un legame e un rimando continuo fra i vari racconti. Zucchi potrà pure dichiarare un intento poliziesco e investigativo determinato dal delitto senza movente, ma niente mi toglierà dalla convinzione che il vero collante sia una tensione metafisica, non tanto come descrizione di una trascendenza, quanto piuttosto come raggiungimento di un limite di una concezione linguistica posta sotto gli occhi del lettore attraverso una illuminazione del fenomeno narrativo. Da qui il suo giocare coi generi, senza che questo sia un mero esercizio di stile, anzi va invece guardato come un orizzonte appunto metafisico. Questa metafisica non è lo studio di ciò che va oltre la fisica, di quello che è situato al di là del mondo corporeo, bensì è una metafisica della conoscenza, una specie di schema delle strutture narrative che permettono di saper qualcosa fino al loro limite estremo, quando non è più possibile saper nulla e si entra in una specie di rito sacrificale antichissimo, che mi ricorda il culto a Moloch o certe celebrazioni segrete. E tutto questo in piena luce del giorno, come dire sotto lo sguardo attento della razionalità linguistica, quasi a mimare lo sguardo di uno scienziato vecchio stampo o un antropologo o dio sa solo chi altro.
La memoria dell’uguale è un libro su cui torno continuamente per cercare di definirlo e ancora non so se ne sono capace, se ho capito, se quello che ne penso sia sensato o in grado di descrivere in qualche modo qualche aspetto di questi racconti.
Inoltre la mancanza di specificazioni temporali e spaziali precise dona alla raccolta uno strano effetto alla de Chirico, che si apre immediatamente a una anomala interpolazione tra un cuore alla Kafka e una mente alla Borges. Semplificando molto Zucchi si situa, non so come, in mezzo a loro, facendo sì che ogni racconto sia il movimento di una idea o di un problema slegato dagli orpelli per lasciarlo libero nella sua essenza narrativa. Una cosa da far girare la testa. Certo non ha il loro humor, né di Kafka né di Borges, ma ha la follia di un Bolaño, ovvero è uno scrittore che si butta da un aereo senza paracadute. Se tutti lo chiamano maestro è perché precipita verso terra prendendo fuoco. Tutti precipitiamo verso terra, ma lui in fiamme.
La metafisica di Zucchi sta tutta qui, in questa intensità del contenuto illuminato dalla fede nella parola e dalla combustione che provoca, così che la nera ironia mitteleuropea soggiacente alla morte si tramuta in una stratificazione graduale che passa da un racconto all’altro, mentre la razionalizzazione argentina costruisce una sequenza di momenti tale che, nello scontro tra le due tendenze, permette a Zucchi di gestire il limite. È un po’ come un equilibrista che cammina su un filo sopra le nostre teste: se cade da una parte finisce in una dimensione emotiva alla Kafka, mentre dall’altra nel cerebralismo borgesiano, con l’unico appunto che l’equilibrista non cade nello scimmiottamento di questi due enormi giganti del novecento. La memoria dell’uguale è la dimostrazione che è possibile non cadere dal filo su cui siamo in equilibrio per rimanere noi stessi anche di fronte ai giganti. E scusate se è poco.
[Immagine di copertina: foto di Gabriele Basilico]