Interrogazione

di Caterina Iofrida

«Meucci? Meucci, dico a lei!»
«Cosa?»
«Alla cattedra».
«Alla… ma io, veramente… non lo sapevo, che oggi interrogava…»
«Io interrogo sempre, Meucci. E poi di chi stavo parlando, mentre lei chiacchierava con Pardi, eh? Sentiamo».
«Lei… stava spiegando…»
«Di Leopardi, parlavo. Ecco, se magari lei fosse stata attenta… e un po’zitta, ecco, magari… non mi sarebbe venuto in mente di interrogarla. Ma invece è una bella idea; sì, mi piace. Anzi, venite assieme: Meucci e Pardi, le compagne di banco. Le amiche del cuore, che oggi siete così carine, vi siete pure vestite coordinate».
Irene Meucci – capelli corti biondi, scomposti, occhi castani, niente trucco né smalto sulle unghie cortissime – indossava una maglietta rossa dell’Adidas, di quelle con le strisce bianche sulle spalle, e dei pantaloni di velluto a coste blu. E in effetti la sua amica e compagna di banco portava una maglietta uguale, ma blu, e pantaloni rossi. Le analogie finivano qui. Melissa Pardi – che al sentir chiamare il suo nome aveva fatto un salto sulla sedia – aveva occhi azzurri intorno ai quali i segni di una grossa matita scura per gli occhi si facevano notare con prepotenza e lunghe unghie smaltate di nero. I suoi capelli erano di un rosa un po’stinto; questo a guardarla da davanti, voglio dire, mentre, se si fosse osservato il suo cranio dall’alto, sarebbero apparsi di un castano molto chiaro, in virtù di una portentosa ricrescita. Il rosa poi proseguiva lungo una larga treccia, voluminosa, per diventare quasi fucsia alle punte. Chi sa che razza di tinta si era fatta, Pardi, probabilmente una di quelle in sconto alla Coop; questo aveva pensato la prof. Ruberti non appena si era vista arrivare quella testa rosa in classe. Quello non era il lavoro di un parrucchiere. Quelli della prof. erano invece colpi di sole biondi, tanto convenzionali quanto professionali: non le donavano affatto, con la faccia olivastra che si ritrovava, ma portava pur sempre in testa un lavoro fatto come Cristo comanda.
Meucci e Pardi si disposero ai due lati della cattedra; all’inizio dell’anno avevano pure provato a mettersi tutte e due da una parte, il più possibile vicine, ma la Ruberti le aveva separate. Le due ragazze la odiavano con la stessa identica intensità, anche se dimostravano il loro comune sentimento tramite comportamenti diversi. Meucci, infatti, in piedi accanto alla cattedra, posizionò lo sguardo fisso sulle punte delle sue scarpe, e non lo schiodò mai da lì, nemmeno quando la prof. la incalzò con una raffica di domande; se ne rimase così, immobile, muta, come di gomma. Dopo venti minuti se ne tornò a posto con un 3, le guance arrossate unico segno che in lei si stesse smuovendo qualcosa. Pardi, invece, mantenne lo sguardo alto e una sorta di ghigno di sfida per tutta la durata dell’interrogazione e, a guardar bene, non fece mai “scena muta”. Alle domande della professoressa replicò sempre; certo, non con la risposta corretta. Ammesso che una risposta corretta a quel tipo di domande esistesse.
«Pardi, secondo te, che cosa rappresenta Silvia, per il poeta?»
«Beh, oddio, che cosa rappresenta… professoressa, mi scusi, eh, ma questo lo poteva sapere solo lui…»
«Come solo lui, Pardi? Sei tu che lo devi sapere!»
«Ma come facciamo noi oggi a dire che cosa passava per la testa di… di uno come Leopardi… uno un po’… scusi, eh… uno che non era tanto normale, ora mica possiamo pretendere di metterci nella sua testa…»
«Ho capito, ho capito, Pardi; vai a posto».
«Ah, siccome ho espresso un’opinione mia, un’opinione personale, vado a posto?» La ragazza accennò un’alzata di spalle, poi si avviò con aria rassegnata e lunghe falcate plateali.
«Ah, Pardi… Ovviamente metto 3 anche a te».
«Ovviamente, ovviamente». La ragazza ridacchiò.
«Che cosa vorresti dire, scusa? Guarda che scendiamo a 2, qua!»
«Come vuole».
Il tono di Pardi era noncurante e assolutamente pacifico; Meucci sorrise, colma di ammirazione per l’amica. Pure lei stava compiendo la sua rivoluzione: ogni giorno, le importava un po’meno delle insufficienze, dei rimproveri, di quel che i professori potevano pensare di lei; le importava, perfino, sempre meno che i suoi genitori s’incazzassero per le insufficienze, di cui ultimamente si era portata a casa una collezione.

«Oh, ma secondo te la Ruberti quanti anni ha?»
«Quaranta. Minimo».
Per Meucci e Pardi, quaranta significava una cosa sola: vecchia. Nessuna delle due la immaginava giovane, del resto, né, della sua gioventù, era mai stata minimamente curiosa; neanche passava per la testa delle due ragazze che la Ruberti avesse avuto, un tempo, dei desideri, perfino delle aspirazioni. La Ruberti era una vecchia che le tormentava, che praticava quel gioco indegno d’interrogare così, a sorpresa, in qualsiasi minuto, di qualsiasi ora, di qualsiasi giorno della settimana. Meucci pensava che questa faccenda di svegliarsi al mattino prestissimo, lavarsi, vestirsi, prendere il caffè e buttarsi su di un bus ancora mezzi addormentati, addirittura prima che il sole fosse sorto… beh, fosse già abbastanza crudele. E invece non era nulla rispetto a ciò che l’aspettava a scuola. Entrava alle otto, il tempo di togliersi il cappotto e poi così, alle 8:40 di un lunedì, mentre ancora il suo cervello era impegnato a svegliarsi, veniva chiamata a render conto alla cattedra. O magari accadeva alle 11 di un giovedì, mentre, con crampi mestruali in atto, indugiava con lo sguardo sul ramo di un albero fuori dalla finestra, in attesa di sentirsi meglio. Leopardi, Manzoni, Dante: che cosa importava? Quando, esattamente, avrebbe dovuto memorizzare quegli argomenti e poi quanto avrebbe dovuto trattenerli in memoria? Come poteva esser sempre pronta ad andare in scena, all’improvviso? Era roba che poteva farti venire un disturbo post-traumatico, ne era certa. L’unica via per la salvezza era fare in modo che la faccenda non la toccasse più: questo, Meucci se l’era promesso in prima superiore. E aveva cominciato a lavorarci. Anche se si mostrava spavalda, pure Pardi soffriva la tortura dell’interrogazione improvvisa; a quella insofferenza si andava ad aggiungere il modo in cui veniva trattata dalla Ruberti rispetto agli altri allievi. Pure le volte in cui aveva studiato – e ce ne erano state, specie al primo anno – al massimo la Ruberti le metteva un 6. I capelli rosa, il giubbotto di pelle: ecco a che cosa metteva i voti, quella. Pardi lo sapeva bene. Pure Meucci lo sapeva; per qualche motivo che non avrebbe saputo spiegare, il trattamento riservato a Pardi era uno dei motivi principali per cui aveva smesso di studiare.

«Pardi, vuole venire lei?»
«Ma professoressa, mi ha interrogata ieri…»
«Che c’entra? Ieri c’era italiano, oggi storia».
«E va bene, va bene… come vuole». Pardi si alzò, ostentando lentezza e un accenno di sbadiglio.
«Che maleducata, Pardi. Le va bene che oggi sono di buonumore… è il compleanno di mia figlia». La Ruberti fece una pausa compiaciuta. «Sai che c’è, Pardi? Ti voglio fare un regalo. Anche oggi chiamo la tua amica, Meucci. Contenta? Così hai compagnia».
Si posizionarono ai lati della cattedra, come il giorno prima. La prof. prendeva tempo: ora cercava gli occhiali nella borsa, ora dava una scorsa al libro. Il tutto con un sorrisetto stampato sulle labbra.
«Professoressa, mi scusi…»
«Prego, Pardi, dica».
«Beh, volevo dirle che non ho le mutande». Pardi alzò gli occhi sull’amica, che, quasi impercettibilmente, fece di sì con la testa in risposta. Sulla classe, in una frazione di secondo, scese un silenzio quasi irreale.
«Cosa
«Le mutande. Le ho dimenticate. Volevo dirglielo… in fondo, ho una minigonna oggi». Tutta la classe guardava ormai nella stessa direzione.
«Pardi, ma sei impazzita?»
«Figurati, neanch’io le porto. Ho la lavatrice rotta!» fece Meucci. Ora la Ruberti sembrava a corto di parole.
«E il reggiseno?» s’informò l’amica.
«Ah, quello non lo porto proprio più. Dicevamo?» Irene Meucci, il mento un po’sollevato, si stava rivolgendo alla professoressa, gli occhi piantati nei suoi. La Ruberti ebbe l’impressione di vederli per la prima volta. Erano un po’a mandorla, notò.
«Ragazze, io… scusate, ma non mi sento molto bene». La voce della Ruberti era bassa, ma non abbastanza da non notarne l’evidente alterazione. Cominciò a raccogliere le sue cose e a riporle in borsa. Gli sguardi delle due amiche si incontrarono di nuovo. Non c’era neanche bisogno di sorridere.

[Immagine di copertina: Fotogramma tratto da Spasimo (Hets) di Alf Sjöberg, scritto da Ingmar Bergman]

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