di Daniele Pasquini
Monica soffriva di periodici e imprevedibili attacchi di tristezza, e spesso anche i momenti di quotidianità più ordinaria si tramutavano in rapsodie di lacrime e singhiozzi.
Bruno, a discapito di un’indole apparentemente socievole, tendeva a perdersi con frequenza crescente in silenzi apatici che duravano lunghi giri d’orologio: soprattutto nel fine settimana i risvegli erano seguiti da lente danze depresse tra il letto e il divano, giornate interminabili trascorse a passare in rassegna la palette di grigi sulla parete.
Si conobbero a giugno, una sera in cui erano stati entrambi trascinati fuori dai rispettivi amici. Lo spazio estivo all’aperto, sul lungofiume, era costellato di tavolini e sedie pieghevoli, e dal chiosco a forma di pagoda si diramava una fitta trama di lampadine sospese.
Il tavolo della compagnia di Bruno si svuotò presto, con gli amici che si erano accalcati attorno al calcio balilla. Lui era rimasto a presidiare la postazione, solitario, a bere la sua birra. Monica lo aveva osservato, lì da solo, e aveva lasciato che la benedizione della curiosità si impossessasse di lei. Quando le sue amiche si allontanarono verso il bagno, lei alzò gli occhi al cielo e cercò le stelle oltre la costellazione di lampadine. Quando abbassò lo sguardo incrociò gli occhi di Bruno: si sorrisero, come se la reciproca solitudine li avesse resi complici. Si avvicinarono, si presentarono, si scambiarono poche parole prima che le compagnie li assorbissero di nuovo. Quando Bruno la vide alzarsi per andare via le si avvicinò tachicardico per chiederle di rivedersi.
Il giorno seguente si incontrarono di nuovo, da soli, senza nessuna distrazione.
Ogni umano nell’incontro con l’altro tende istintivamente a mettere in mostra il meglio di sé, ciò che lo identifica o qualifica: i successi negli studi, la posizione lavorativa, le passioni musicali, le idee più nitide e tutto ciò che si reputa, a torto o a ragione, possa convincere l’altro a investire emotivamente su una relazione, a mettere da parte il naturale egoismo del cuore. Monica e Bruno, invece, si specchiarono nella confidenza dei propri dolori, delle paure e delle malattie. Erano accomunati dalle benzodiazepine prima che dagli interessi, e vicini nelle voragini prima che negli orizzonti. Ne seppero ridere, e riconoscersi nella disperazione li fece innamorare in una manciata d’ore.
Era quasi il solstizio d’estate, la notte calò con comodo. Chiuso il locale si trovarono in strada da soli, lucidi nonostante gli alcolici. Camminarono poi senza dirsi niente, e spezzarono con una risata quella breve parentesi di imbarazzo: infine Bruno invitò Monica a casa e lei, che a cose normali sarebbe rimasta paralizzata, stavolta non trovò motivo per rifiutare.
L’appartamento di lui riverberava dalle finestre le luci mosce della città. Bruno si bloccò con la mano sull’interruttore, temendo di far lume sul disordine della casa: tentennò, ma prima che potesse decidersi a premere lei lo prese per mano, lo pregò di non accendere la luce, si orientò nella penombra e cercò una sedia. Sedette e si prese il volto tra le mani, piangendo piano. Bruno non fece nulla, se non sedersi vicino a lei, senza toccarla, né parlarle. Era un lungo congedo dai demoni.
La notte era già adulta quando Monica smise di singhiozzare, e alzando gli occhi bagnati verso Bruno si accorse che lui era rimasto lì, impassibile, con lo sguardo che dal vuoto si stava appena spostando su di lei. Allora si avvicinarono, e si toccarono per la prima volta: le loro bocche si unirono fino a far combaciare i respiri, e i loro corpi si sovrapposero fino a far coincidere i battiti, come se fondersi nell’altro fosse l’unica scelta possibile.
Al mattino Bruno si svegliò e avvertì l’assenza di Monica. In soggiorno trovò un messaggio sul tavolo, scritto con un evidenziatore arancione sul retro di una bolletta: “sono felice”, diceva, “Ora corro a lavoro, non vedo l’ora di poterti rivedere”. Bruno si preparò il caffè e si vestì a sua volta per uscire. Si rividero la sera stessa, e anche quella seguente, e così per settimane, fino a che non partirono, separati, per le ferie: passarono le vacanze a maledire l’idiozia della distanza, a dirsi nei messaggi che erano stati degli idioti a privarsi dell’unica presenza di cui volevano nutrirsi. Nel pieno dei loro trent’anni sperimentarono una nuova adolescenza, la voglia di fagocitarsi e il bisogno di colmare a vicenda il vuoto che li aveva abitati.
Quando alla fine di agosto si riabbracciarono, Monica, che conosceva il sapore dei propri occhi, non sapeva spiegarsi la dolcezza di quelle nuove lacrime. Andarono a vivere insieme alla fine dell’estate, lei lasciò la sua stanza e si trasferì da Bruno, dove per settimane si dedicarono ogni sera a scambiarsi le iridi: passarono in rassegna il catalogo dei colori che non avevano conosciuto fino a completare finalmente lo spettro del visibile.
Morirono insieme in novembre: durante la notte, dalla caldaia che alimentava i termosifoni, uscì lento il monossido di carbonio. Monica e Bruno ne furono avvolti in silenzio. L’esplosione squarciò le pareti e mandò in pezzi il palazzo, sputando in strada brandelli di vita. Tanto che nessuno, neanche al mattino, in piena luce, avrebbe saputo dire dove finiva qualcosa e iniziava qualcos’altro.