Diario di bordo. Divagazioni sul rap italiano e sull’ultimo album di E-Green

di Salvatore Cherchi

Diario di bordo pt1. “Cosa rappresenta un re per un credente?”

Qualche tempo fa, qualcuno chiese se Adversus, l’ultimo disco dei Colle der Fomento, fosse il miglior disco di rap italiano mai pubblicato. Un quesito che spinse diversi ascoltatori a scandagliare trent’anni di rap nostrano, per cercare quali e quanti dischi fossero stati sacrificati sull’altare del gusto di chi poneva la domanda.

Questo ci insegna che indicare il “meglio del meglio” è un esercizio che spesso riflette solo la nostra soggettività di ascoltatori. Ma non c’è nulla di male in questo, sia chiaro. Si tratta di indicazioni utili ad accendere dibattiti a volte interessanti. A quella domanda infatti, qualcun altro rispose proponendo un “canone” dell’hip-hop italiano. Una serie di dischi (credo 20) che avevano segnato l’evoluzione del genere, tracciato un confine tra un prima e un dopo.

Adversus non rientrava in questo canone, perché è un disco legato a un suono formalizzato vent’anni fa. Che non significa brutto, ma solo che guarda al passato e non al futuro. Non porta nulla più di quanto già portato da Odio pieno, sempre dei Colle, nel 1996.

Per qualcuno può essere ingiusto, vero. Soprattutto per chi intende il rap come puro skills, consciousness e rispetto della tradizione. Ma il rap è anche altro. Non solo eterna espressione di un movimento oggi storicizzato. È prima di tutto musica, capace di adattarsi ai tempi, alle latitudini, alle mode, e soprattutto alle generazioni che ereditano il microfono e ne riscrivono i codici estetici a loro immagine e somiglianza. Anche ignorando tutto ciò che è venuto prima. Iconoclasta.

Diario di bordo pt.2. “A quindici anni non sai niente, non ti aspetti niente…”

Ad esempio, per la mia generazione il leitmotiv keep it real nell’hip-hop era un dogma. Non rispettarlo ti poneva alla meglio come outsider, alla peggio come scrauso, falso. Ma chiunque scriva sa che il confine tra realtà e finzione, anche nel rap, è questione di interpretazione e visione. In una recente intervista, Gué Pequeno ha detto che ascoltare la sua musica è come guardare un film gangster di Martin Scorsese o Brian De Palma. Possiamo chiederci quanto di vero ci sia in ciò che racconta, ma dobbiamo prendere atto del fatto che si tratta di un’opera di finzione. Un certo grado di visionarietà, di poetica, di puro racconto, è necessario per sua natura. Bisogna dunque smettere di prendersi troppo seriamente e lasciarsi trasportare dalla creatività dell’artista. Se così non fosse, come si potrebbe prendere alla lettera, ad esempio, un disco come Non dormire di Noyz Narcos, o Mr. Simpatia di Fabri Fibra, ma anche tutta la recente ondata di sottocultura Drill?

Ok il Keep it real. Però non è che la vita di chiunque prende un microfono in mano deve essere l’unico metro per valutare la credibilità (cioè la qualità) di ciò che dice. Soprattutto in un’epoca in cui il perfomattivismo e il personal branding sono concetti centrali nella promozione di sé stessi, tanto come lavoratori e ancor più come artisti. E il rap, in questo, è sempre stato una musica all’avanguardia, perché ha in sé il seme dell’individualismo e della competitività esasperata (quantomeno nella posa).

La street credibilty, dunque, era un valore essenziale per la sopravvivenza all’interno di una collettività chiusa e autoriferita, i cui membri si approcciavano al culto con religioso rispetto di regole non scritte. A ignorarle ne andava della propria reputazione (un sucker è per sempre, cantava qualcuno).

Ma in un’epoca in cui il collettivismo è tramontato, le arti dell’hip-hop hanno raggiunto ognuna una dimensione propria: istituzionalizzata e autonoma, indipendente dalle altre, trascende la nicchia di partenza, troppo stretta per rappresentare le diversità, gli stili e le contaminazioni presenti. Così nel rap sembra divenuta essenziale la codifica di un nuovo linguaggio, capace di esprimere i tempi attuali. Un linguaggio non più rivolto alla stretta cerchia di adepti, ma parte di uno storytelling tanto universale quanto individuale. Il vissuto quotidiano viene utilizzato per la costruzione di una personalità artistica unica, in opposizione a tutte le altre e non in accordo a un movimento. Vedasi Achille Lauro, o Ghemon, Willie Peyote, e tutti i rapper che oggi creano, senza ambiguità, un proprio stile ibrido e incasellabile nel solo movimento hip-hop, pur da quello muovendosi.

Diario di bordo pt. 3 “Io non parlo alla massa, parlo al singolo”

Tutta questa parentesi voleva solo sottolineare la poca utilità di porre un prodotto “classico” in competizione (meglio/peggio) a prodotti più “attuali”, che per loro natura sono spinti al rinnovamento, hanno necessità di porsi un passo avanti alla concorrenza per differenziarsi. Adversus non è il miglior disco di rap italiano non perché non lo meriti, ma perché definire il rap italiano come potevamo definirlo 10 o 15 anni fa è impossibile. Quel disco non lo rappresenta né sintetizza più, ma ciò non intacca l’indubbia qualità artistica che possiede. Né vuol dire che è un disco fuori tempo massimo, da boomer parrucconi del rap.

Anzi, oggi quel disco è potenzialmente più attrattivo perché può trovare il proprio canale espressivo, senza l’ansia di non essere adatto a un mercato schizofrenico e afflitto da FOMA. Questo perché il mercato, oggi, non è un monolite binario (o dentro, o fuori), ma è un insieme frammentato di nicchie precise e definite, dove ogni prodotto ha la sua utenza, più o meno grande.

Da questo punto di vista, volendo, risulta difficile trovare qualcosa che sia del tutto disallineato dalla tendenza generale, proprio perché una tendenza generale, ad essere pignoli, non sembra esserci. Dipende tutto dalla nicchia, o dalla bolla, in cui si vive e a cui si parla.

Ad esempio, l’ultimo disco di E-Green, Nicolás, suona come un disco fuori sincrono, incapace di trovare una collocazione commerciale. Chi ascolterebbe oggi un disco rap con un singolo di 10 minuti senza ritornello, manco fosse La fin de leur monde degli IAM?

Eppuure Nicolás, per quanto coerente con la carriera artistica di E-Green, non è così distante dai lavori di suoi colleghi più o meno coetanei, che hanno pubblicato in questo periodo quelli che si possono definire gli album della “maturità”. Mi riferisco a Marracash, Gué, Noyz Narcos, che insieme a Fabri Fibra e pochissimi altri, sono i rapper “anziani” e intergenerazionali, capaci di tirarsi dietro il pubblico degli anni Duemila, e di raccoglierne di nuovo a ogni uscita (tra questi amerei mettere Caparezza, ma lui è stato il vero outsider dal giorno zero, e anche lui ha pubblicato il disco della maturità ora, Exuvia).

Se GVESVS, Noi loro gli altri, Virus o Caos, sono dischi prodotti e spinti per sfondare le classifiche, quello di Fantini è un disco (autoprodotto) pensato per salvarsi da un momento di difficoltà umana e artistica (lo spiega lui stesso bene qui). Ma il mood che si respira in tutti questi album, è affine. Una ripartenza da quel Keep it real, riletto in chiave esistenzialista e riflessiva, e non solo (più) autocelebrativa di sé stessi o di una scena. Questi dischi non sono uno sguardo al passato, né uno sguardo al futuro, ma una riflessione sul presente, sul proprio presente e sulle possibilità raggiunte da una musica ormai autonoma rispetto al micro-cosmo culturale in cui si è generata.

Diario di bordo pt. 4 “Questa roba non deve piacervi, sorry, piace a me e mi basta”

In questo senso, E-Green potrebbe quasi essere un rapper che funge da anello di congiunzione tra due mondi e due epoche. Lui è sempre stato un rapper legato a una visione molto pura dell’hip-hop, da rivendicare con rabbia e orgoglio, ma al contempo è stato in grado di trascendere quell’intransigenza frutto di sterili polemiche, fraintendimenti, lotte tra due modi di intendere la musica: prodotto o arte; suonata per gli adepti del culto o mercificata per il grande pubblico. Dicotomie entro cui carriere potevano soccombere o decollare.

Il suo approccio romantico al rap, lo dipinge come un profeta che si mette in spalla la croce di una causa più grande, in un’epoca in cui le cause mutano rapidamente come le stagioni, e tutti sembrano pensare solo a sé stessi. Una sorta di Don Chisciotte armato di barre e flow, che all’ottavo disco (più svariate altre produzioni tra EP, Mixtape) rappa, se vogliamo, con più grinta e rabbia che nel primo, trovando linfa creativa in una vita personale che sembra non fargli sconti.

Ma questa visione, a posteriori, ad ascoltare Nicolás, appare un po’ artefatta, esasperata. Tratteggiata appunto con un certo grado di visionarietà, poetica, puro racconto. Se Il cuore e la fame (2013) parlava al micro-cosmo del rap italiano, attraverso una visione tanto amorevole quanto integralista; i successivi album (Beats & Hates, More Hates) giocavano molto con la figura del rapper-panzer-operario-del-rap, poco intellettuale e raffinato, ma capace di stendere chiunque salisse sul palco ad affrontarlo.

Nicolás invece riflette solo il suo autore, le sue debolezze come persona e artista. Nicolás è un disco visceralmente legato a un classicismo estetico-musicale molto esplicito, chiuso in una precisa visione del rap che ha deciso di non porsi in contrapposizione a niente e nessuno. Un disco che non sta gridando ci-sono-anche-io-ma-lo-faccio-così-perché-il-rap-si-fa-così, ma un disco che sta parlando a una nicchia, o a una bolla, in cui il rap si vive e si fa in un certo modo.

Da questo punto di vista, l’ultimo disco di E-Green, più che il disco di un profeta che porta sulla spalla la croce dell’Hip-Hop (vandalizzata, a detta dei più intransigenti, dalle nuove leve), è un disco di autoconservazione. Un disco che agisce come un anticorpo utile a non far estinguere definitivamente una determinata radice da cui questa musica è nata. Non il miglior disco rap italiano mai pubblicato. Non un disco che entrerà nel canone dell’hip-hop italiano. Più che altro un disco che nessuno ha formalmente chiesto, ma di cui in fondo si sentiva il bisogno.

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