Buono, giusto e pulito: le soluzioni dello slow journalism

di Giulia Sabella

Slow journalism. Chi ha Ucciso il Giornalismo? Daniele Nalbone e Alberto Puliafito, Fandango Libri, 2019

Nel corso degli anni, il giornalismo è stato dato più volte per spacciato: mentre alcuni commentatori danno la colpa a Internet e alle fake news, i giornalisti Daniele Nalbone e Alberto Puliafito con il loro Slow Journalism. Chi ha ucciso il giornalismo? edito da Fandango Libri, cercano non solo di fare chiarezza sulla situazione attuale, ma anche di proporre un nuovo modello di informazione. – Intanto partiamo da una precisazione – spiega Nalbone, responsabile web de Il Paese Sera, che abbiamo contattato telefonicamente per parlare del libro, – lo slow journalism non è un prodotto ma è un metodo di lavoro. Le politiche dello slow journalism si possono e si devono adattare anche all’agenda delle breaking news. Slow journalism significa avere rispetto, non correre, rifiutare la politica secondo cui “se l’ha detto l’Ansa, allora lo posso pubblicare”, “lo ha scritto un grande giornale e quindi posso pubblicarlo anche io”; significa verificare fino in fondo i fatti e quindi non limitarsi a un lancio, seppur autorevole, della notizia–.

I primi capitoli del libro passano in rassegna le caratteristiche del giornalismo attuale, analizzando i punti deboli del sistema dell’informazione, fatto di reporter (spesso senza tutele) che vengono pagati pochi euro a pezzo e di testate che misurano il proprio successo sulla quantità di visualizzazioni avute dagli articoli, a prescindere dalla validità del contenuto. Ecco allora il proliferare di titoli acchiappaclick che abusano di parole come “shock”, “incredibile” ed “emergenza” per attirare il lettore nelle proprie grinfie, alimentando un modello di business basato su traffico e pubblicità. Tra gli obiettivi dello slow journalism c’è anche quello di mettere un freno a quelle che Nalbone descrive come le due malattie peggiori del giornalismo, vale a dire – l’istantismo, cioè la velocità sfrenata, e il gigantismo, cioè la grande mole di contenuti da produrre. Non sei più un giornalista, sei un riempitore di contenuti e questo è un problema serio – continua Nalbone. – Nel momento in cui nei bar, nelle piazze, con gli amici, in famiglia, senti dire “ho letto su Facebook”, “ho letto su Internet”, vuol dire che abbiamo perso tutti. Non c’è qualcuno che ha vinto questa partita, nemmeno chi vanta milioni di fan sui social e centinaia di migliaia di utenti unici al giorno, perché i grandi numeri non sono persone, non sono lettori, e accettare che il giornalismo si fondi soltanto su dei dati di traffico, senza sentirsi in un certo senso responsabili del declino culturale che stiamo vivendo, significa aver abdicato a qualsiasi obiettivo –.

La fretta, unita alla necessità di pubblicare sempre più contenuti, ha delle ricadute pesanti sulla qualità del giornalismo. –L’esempio più semplice e forse più recente è il caso di Noa, la ragazza olandese che avevano detto essere morta per eutanasia, e che poi si è scoperto non essere così, con tutte le conseguenti polemiche. Lo slow journalist (o colui che ha ancora un briciolo di dignità e deontologia nel fare questa professione) avrebbe monitorato i siti olandesi per rendersi conto che di questo caso, che noi in Italia abbiamo raccontato con “scuote l’Olanda”, in Olanda non se ne stava parlando – continua Nalbone. Un problema fondamentale è proprio quell’horror vacui che porta i giornali a pubblicare decine di notizie al giorno. – Quando esce una breaking news, questa viene data da 40 siti di informazione, e di questa breaking news se ne parlerà sui giornali il giorno dopo, che però saranno già vecchi. Non c’è un approfondimento, non c’è un’analisi, l’unica logica è quella di non prendere buchi. Oggi si gioca tutto su questo, ed ecco che i piani editoriali sono degli elementi folli da 100 o 150 link al giorno; questo significa che devi avere redazioni enormi ma non te le puoi permettere, e quindi sono piene di gente non contrattualizzata, pagata pochissimo e che non sa fare questo lavoro perché nessuno gliel’ha mai insegnato –. In questa lotta continua contro il tempo, diventa inoltre difficile anche solo fare delle ricerche per essere sicuri di quello che si sta scrivendo: – se devi pubblicare 10, 15 articoli al giorno in una giornata di otto ore lavorative, significa che hai 20 minuti di tempo per trovare una notizia, confermarla, scriverla, impaginarla e pubblicarla sui social – continua Nalbone. Ma il giornalismo non è tutto così. Da anni c’è anche chi sta cercando di scardinare questo meccanismo, e Nalbone e Puliafito citano alcuni di questi casi. Un esempio su tutti è quello del De Correspondent, una start up giornalistica nata nel 2013 in Olanda nel cui manifesto è possibile ritrovare quelli che sono i principi dello slow journalism (come, ad esempio, l’attenzione alle fonti e l’evitare di rincorrere le breaking news). Nel 2018 è stato deciso di creare una versione internazionale in inglese, The Correspondent: anche se questo giornale sarà online solo nel settembre 2019, i suoi fondatori sono già riusciti a raccogliere oltre 2 milioni di euro con un crowdfunding finanziato da persone che, pur non avendo ancora letto o visto niente, hanno deciso di dare fiducia a questo modello giornalistico, dimostrando che c’è ancora chi è disposto a pagare per avere dell’informazione di qualità. Anche l’Italia però vanta alcuni esempi vincenti, come Valigia Blu e Internazionale. – Loro hanno fatto una cosa molto semplice – spiega Nalbone – hanno riscoperto il giornalismo come strumento di relazione, hanno rifiutato la logica dei picchi di traffico e hanno rimesso al centro i lettori, pensandosi come strumento di relazione diretta con il proprio pubblico. Soltanto da lì un modello di business può funzionare, nel momento in cui il giornalista capisce, o torna a capire, che quando scrive lo fa per delle persone e non per una piattaforma –.

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