Ogni anno, a gennaio

di Giovanna Daddi

Già all’ingresso della Flog sento le note di Siberia, appena in tempo, è iniziata in quel momento, nella versione di gran tiro e con la voce asciutta di Fiumani. La Siberia di Sassolini è un ricordo lontano, la mia Siberia è questa, senza pathos ma con molto più senso: il ghiaccio si confonde con il cielo, con gli occhi e quando il buio si avvicina vorrei rapire il freddo. Magari il freddo di questo gennaio, che esplode dentro la sala più rock di Firenze e coprirà le distanze, nonostante gli sforzi vani di quello storico fonico che non ha mai vinto la sua battaglia contro l’acustica del Poggetto.

Ringrazio anche lui, perché è parte di questo. Il freddo si scioglie in un attimo, i ricordi vagano e mi trovo di nuovo in quella piccola Brixton di cortili abbandonati, pieni di macerie, con cancelli arrugginiti e cadenti, che davano al quartiere quell’aria da periferia di Belfast. E invece era quella terra di mezzo, fra piazza Dalmazia e l’autostrada. Nei giorni grigi dava proprio buonumore e metteva alla prova i tuoi istinti suicidi di adolescente in crisi. Davanti, i bambini dei Greci giocavano a pallone sull’asfalto e stavano in strada a giornate intere, richiamati la sera dalle urla poco affabili delle loro madri.

Questa era la Siberia, interiore, il ghiaccio che paralizzava i sogni e non faceva scorgere più in là della strada.

Immagino che tutte quelle persone della mia generazione, che lì con me ascoltano i Diaframma, abbiano la stessa storia, gli stessi ricordi, abbiano in testa un giardinetto di periferia dove ogni giorno qualcuno moriva di overdose.

Chissà chi era la Giovanna di “Giovanna dice”, avrà smesso di bucarsi? Sarà viva o morta? Cosa avrebbe da raccontare? E a te, Federico, cosa ha raccontato? La conoscevi davvero? Era parte di quel mondo al limite tra la ribellione e il disfacimento, l’autodistruzione di chi si illudeva di trovare la felicità in un buco e la gloria luminosa di una libertà assoluta? Chi va a fondo è libero dalle catene?

La Siberia erano gli anni 80 a Firenze, tra vicoli bui di tossici persi e il talento potente e ingenuo di chi, con il cuore Oltremanica, voleva volare. Basta un verso per descrivere un mondo, ma solo chi lo ha vissuto è in grado di farlo, e può e sa evocare. Com’era la tua Siberia, Federico?

Elena, poi, con la forza di promesse inventate in un giorno qualunque: il vetro, da cui vedi il presente solcare il passato. In un giorno qualunque, con mille pensieri, ricordi, rimpianti, di un giorno qualunque. Che non è mai un giorno qualunque, ma è sempre un giorno da ricordare, per qualche motivo, fosse anche solo per un testo criptico, denso di domande senza risposta, su una melodia quasi scanzonata che fa da contrappunto ironico a un vestito che cade.

E mentre ti lasci cullare dall’immagine di una donna sorridente, ti ritrovi a scender le scale sfiorando il muro, cercando qualcosa d’indefinito. Il giorno ferito impazziva davvero di luce, in quella mia via, da bambina, al tramonto, il rosso arancio che squarciava le miserie: la potenza di Amsterdam, che ti accompagna in un inferno di anime perse.

Comunicare l’incomunicabilità, la più notevole delle caratteristiche dei testi di Fiumani: capisci senza capire, senti istintivamente anche ciò che non conosci, sei inebriato da un profumo che non c’è, ma la tua mente lo sente distintamente, in una sinestesia che non è solo una reazione chimica. Ed è così che tutte le donne in quella sala, ne sono certa, si chiedono se il loro abito da sposa è durato il tempo che hanno voluto. Chissà se qualcuno trova mai il coraggio di tornare indietro per dare un senso alle cose: di cosa parla davvero l’odore delle rose?

All’improvviso tutto diventa Verde, la liquida e onirica Verde, suonata con maestria, in un viaggio immaginifico alla Velvet Underground, dove le trecce corallo sembrano diventare enormi, come Alice nel paese delle meraviglie dopo aver bevuto la pozione, e Fiumani con la sua telecaster, suonata con disinvoltura e quasi senza dare importanza, ci racconta una visione.

A scuoterci dalla visione ecco Gennaio, l’inno di questa collettiva dichiarazione d’amore, quell’urlo potente, ironico e disperato insieme, che arriva proprio appena tutti noi abbiamo appena speso le nostre tredicesime “in assoluta allegria”, e quanta è la gratitudine, da generazioni ormai, per averci fatto capire che i soldi spesi non sono mai qualcosa di cui pentirsi. Nessun senso di colpa.

In ordine sparso: Io ho te, la mia vita con una Dea, Silvia, Boxe, L’orgia, Io sto con te ma amo un’altra, Oceano, Vaiano. Vaiano: la periferia della periferia, il paese lontanissimo dalla città, di cui Fiumani sa cogliere l’essenza, “per vedere l’effetto che fa”, con un arrangiamento nuovo, diversa, ma sempre la stessa.

La splendida e rara L’amore segue i passi di un cane vagabondo, che proietta davanti a te l’immagine nitida di una coppia che non ha più niente da dirsi, e lo fa con parole che nessuno saprebbe trovare, lontano da ogni banalità. Cos’è la tristezza?

Madre superiora, dove l’ingenuità mostra la perversione, o è solo ricerca di un porto sicuro? La Madre con gli occhiali, con il suo dolore, agli antipodi di quel Diamante grezzo in minigonna nera, due facce dello stesso amore. Chi era la Madre Superiora? Una donna reale, un simbolo, o quello che ognuno vuole vederci.

E Labbra blu. A un certo punto del concerto, la scaletta non la ricordo. Ma a un certo punto arriva sempre, sai che deve arrivare, quella che è forse una delle più grandi canzoni mai scritte, uno dei testi più commoventi e granitici della storia della musica italiana. Via le lame dal mio cuore, un verso liberatorio, che da solo basta a rimarginare quella ferita, via dall’anima quel peso, di umiliazione, di perduto amore, di rabbia che sia, che chiunque ha provato almeno una volta nella vita, ma che solo Labbra Blu sa raccontare. Una canzone d’amore, di liberazione e di poetica, disperata, nostalgica sincerità con sé stessi. Quando hai scritto Labbra Blu, fuori pioveva?

Il bis si scioglie nel Caldo, interrotta perché “sono partito malissimo ragazzi, dai cantatela voi”: ma andava benissimo così, “I tuoi amici sono un mucchio di stronzi, hanno facce da ricchi premi e cotillons”.

E chi non li ha, degli amici stronzi?

Al prossimo anno, in un giorno qualunque di Gennaio, qui, a Firenze, alla Flog, lontano dal centro e vicino al cuore della periferia. Grazie di tutto, Federico.

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